«Condivisione e qualità I punti di forza di Cometa»

Il manager Vittorio Colao contribuisce a elaborare i progetti per consolidare e sviluppare l’associazione

Cometa ha saputo crescere, ha mantenuto nel tempo il focus sulla sua finalità e si è impegnata per trasferire queste competenze ad altri: sono i tre elementi che, per Vittorio Colao, rappresentano l’unicità dell’esperienza di Cometa, riconosciuta anche da Unesco-Unevoc che ha scelto Como per la conferenza internazionale 2024 sulla formazione inclusiva.

Diventare grandi: perché è importante per le realtà di Terzo settore?

L’idea di inclusione di Cometa ha preso avvio dall’accoglienza, da due famiglie che hanno preso con sé, in affido, pochi ragazzi e adesso ci sono 1.300 giovani che beneficiano di un sistema che è stato messo a scala. Se vogliamo affrontare i problemi sociali in modo più sistematico ed efficace, le associazioni devono crescere e Cometa è proprio l’esempio di come si possa passare da un budget contenuto a uno molto importante per dare un servizio di inclusione sociale, formativa e lavorativa di altissimo livello.

Dov’è la straordinarietà di questo passaggio?

Saper crescere in Italia non è così comune né facile. Vale per le associazioni e le realtà di Terzo settore, ma vale anche per le aziende. Si tratta di una questione culturale in un Paese molto frazionato e fortemente individualista. Al contrario, se un’idea è buona, è opportuno cercare di farla crescere, di ampliarla e di coinvolgere quante più persone possibile. Negli anni è stato questo il ruolo di noi amici di Cometa.

Com’è successo che si è deciso di investire per fare un salto di dimensione?

C’è stato un momento in cui Cometa è cambiata, perché loro, la famiglia Figini, e noi amici di Cometa, abbiamo capito che in quella esperienza c’era un potenziale che andava oltre la bellissima iniziativa iniziale. A un certo punto di quella che era una storia familiare e locale ci siamo detti che sarebbe stato possibile fare di più, crescere sulla scorta di quell’indicazione forte.

Uno dei problemi del Terzo settore in Italia è che ci sono moltissime piccole iniziative, molto belle, che avrebbero la potenzialità per diventare grandi, invece non crescono. Perché questo accada serve la collaborazione pubblico privato, ma ancora prima serve pensare in grande, prendersi dei rischi e condividere il proprio progetto con una cerchia di persone che hanno diverse competenze per poter affrontare i differenti problemi che si possono presentare.

Il tema della scalabilità dei progetti nel Terzo settore è spesso trascurato. Oggi Cometa è l’esempio meraviglioso di come sia invece possibile.

Secondo passo: continuare nella missione che ci si è dati, perché non è sempre possibile?

Nel ruolo di advisor noi vigiliamo affinché non venga perso il focus principale e la struttura continui a funzionare bene per adempiere alla propria missione. Proprio con l’idea di rafforzarsi e di crescere, a un certo punto Cometa ha deciso di dotarsi di un advisor board, cioè un insieme di persone che concorrono a indicare le strategie per una crescita.

Si tratta di un gruppo di professionisti, imprenditori, giornalisti: un team di esperti, ognuno nel proprio campo, di cui faccio parte, che hanno aiutato mettendo a disposizione le loro competenze.

Infine, terza azione, comunicare perché altri seguano l’esempio: come?

Il terzo elemento distintivo dell’esperienza di Cometa è la capacità di condividere la propria esperienza: c’è la capacità di contaminare altri ambienti e di farlo bene. È questa la lezione appresa in Cometa nelle sue varie aree di attività, dall’avviamento al lavoro, alla scuola, all’accoglienza, ai servizi sociali, alla gestione delle persone con disabilità e, infine, la capacità di condividere le best practice con altri. Cosa che avviene senza però perdere la propria finalità originaria e questo è un problema non banale perché spesso nel cercare di fare le cose si perde la capacità di comunicarle o, al contrario, a volte nel comunicarlo si finisce per essere dei conferenzieri e non degli operatori. Cometa ha tutte e tre le componenti necessarie: è una bellissima realtà che funziona, mantiene le sue finalità per il bene e ha dimostrato che a Como si è creata una realtà scalabile, cosa che altre realtà anche in città più grandi come Milano non riescono a fare. È diventata così un polo di eccellenza a cui molte altre situazioni guardano come un esempio ed è quindi infine riuscita a operare un trasferimento di competenze anche all’esterno.

Non sono mancati i riconoscimenti, come quello di Unesco-Unevoc, per la capacità di agire per l’inclusione mantenendo un livello di eccellenza: quale lezione se ne può trarre?

Il tema di Cometa è tutto in questa tensione a continuare a dare qualità e a contaminare realtà affini in Italia e all’estero, quindi tende a diventare un magnete, un attrattore di persone che si impegnano e di giovani. Tutto questo è successo a Como e penso che possa essere un fattore di orgoglio per la città e per tutta la comunità che ha aiutato e sostenuto negli anni Cometa.

Seguo anche altre realtà, ma nessuna di queste riesce ad avere tutte e tre le caratteristiche: se sono molto brave e capaci, restano piccole oppure sono dei parlatoi di buone prassi ma non le agiscono.

Il “metodo Cometa” per l’inclusione può essere trasferito anche al di fuori del Terzo settore, in azienda?

Ero nella sede di via Madruzza pochi giorni fa e ho visto che i ragazzi qui capiscono due cose.

La prima è la qualità. Tutto quello che si fa è bello e ordinato: dai locali, al cibo, all’attenzione che viene posta nelle cose e questo è un fattore che tutti i contesti dovrebbero riuscire a curare, anche le aziende, perché la qualità anche di un luogo fisico o del cibo significa attenzione e, a prescindere da ogni altro fattore, questo è un messaggio che arriva molto forte ai giovani

Il secondo elemento ha a che fare con il cuore. Quando si parla con gli educatori e con le persone di Cometa si coglie una forte passione per il loro lavoro, una forte attenzione all’individuo e viene data sempre grande importanza alla persona che hanno davanti. Quando un ragazzo capisce che l’educatore tiene a lui come persona, anche chi proviene da situazioni difficili e ha esperienze deludenti alle spalle, percepisce questa passione e autentico interesse.

Trasportando tutto questo in contesti di lavoro, cosa potrebbe accadere?

Un elemento frequente di frustrazione delle aziende italiane è che non riescono a intercettare dei giovani e ad assumere le persone giuste.

La domanda da porsi in questi casi è quanta qualità si è saputa dare nel colloquio iniziale e chiedersi se si è svolto in modo puntuale, se la persona è stata ricevuta in un posto bello, si è parlato con chiarezza e concretezza del lavoro, si tiene a questa funzione e se c’è un forte interesse per assumere proprio quella persona.

Se ci sono questi due elementi si crea interesse, attrazione e allora diventa importate solo la terza domanda: “quanto mi paghi”.

Quando un’azienda dà qualità e attenzione ha già fatto il 70% di quello che serve per essere attrattiva nei confronti dei giovani, poi ci vuole uno stipendio giusto, certamente, ma sappiamo che per i giovani è un elemento importante, ma non discriminante né unico nella scelta per il loro futuro. Vale di più un ambiente stimolante nel quale poter crescere.

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