L’avambraccio rimasto nel tornio: Alessandro racconta la sua storia

«La comunità è viva quando fa memoria del proprio passato». E’ stato Claudio Zanin, direttore dell’Inail di Sondrio, sottolineando l’importanza di ricordare chi è morto sul lavoro o chi si è infortunato avendone la vita sconvolta - tra gli iscritti sul libro della memoria di questo 1 maggio anche chi ha trascorso 50 anni di vita precaria a causa di un incidente sul posto di lavoro - ad introdurre, durante la tavola rotonda che ogni anno accompagna le celebrazioni a Colda, le testimonianze di chi è passato attraverso quell’esperienza.

Insieme ad Andrea Bordin che ha subito l’amputazione di una gamba e che è ormai un “veterano” nel fare testimonianza dei cambiamenti delle abitudini che gli incidenti sul lavoro portano con sé stravolgendo per sempre gli stili di vita, anche Alessandro Cerri, figlio di quel Giocondo già segretario generale della Cgil, che, emozionato e commosso, ha raccontato per la prima volta l’infortunio che il 12 marzo di tre anni fa gli ha sconvolto l’esistenza. A soli 21 anni.

«Erano le 20,20 - ha raccontato - lavoravo come manutentore su un tornio parallelo, quando improvvisamente mi sono sentito prendere il guanto nella macchina. Ho iniziato a tirare per

liberarmi, quando pensavo di esserci riuscito ho visto che non avevo più l’avambraccio. In trance ho cercato di recuperarlo dalla vasca del tornio: solo quando ho visto il sangue e le condizioni dell’arto mi sono reso conto di cosa fosse accaduto». A testimonianza dell’utilità dei corsi di formazione per la sicurezza, Alessandro ha trovato compagni di lavoro che si sono immediatamente mossi «come meglio non avrebbero potuto fare». Il giovane fu trasportato al San Gerardo di Monza dove con un’operazione lunga e delicata gli è stato reinnestato l’avambraccio. Adesso lavora nella stessa azienda, il Nuovo Pignone.

«Devo ringraziare il sindacato che ho sempre avuto al mio fianco – ha ricordato Alessandro -. Se ho un posto a tempo indeterminato e faccio un lavoro che mi piace è anche grazie alla Fiom e alla Cgil a tutti i livelli, oltre che alla disponibilità che l’azienda mi ha riservato. Ma questo non è scontato, come ho poi scoperto. La gran parte di coloro che hanno subito gravi infortuni, devono affrontare solitudine e spesso umiliazioni. E’ durante il periodo riabilitativo che si comincia a prendere realmente coscienza di ciò che è cambiato nel proprio corpo, alcuni lo rifiutano cadendo in depressione. Per me è stato difficile accettare che dei molti sport che praticavo non ne potevo più fare nessuno, neppure allenarmi in palestra o giocare al computer. Non è facile neppure reinserirsi nel proprio giro di amici: loro hanno mantenuto le stesse abitudine che a te dopo l’infortunio sono impedite». Peggio ancora quando neanche il reinserimento nel mondo del lavoro diventa possibile. «Per fortuna io non ho subito questa umiliazione – ha detto Alessandro -, ma immagino cosa significhi dopo l’infortunio, vedersi strappare anche la prospettiva di avere una vita dignitosa».

© RIPRODUZIONE RISERVATA