«L’assenza della politica fa retrocedere l’Italia». Intervista a Giorgio Benvenuto

Giorgio Benvenuto non ha bisogno di presentazioni perché è un pezzo della storia del sindacato e del nostro Paese. Ha concesso in esclusiva un’intervista al sito Uilpa.it su alcuni dei principali problemi che investono il mondo dell’economia e del lavoro.

 

Secondo l’Istat oggi il 24% degli italiani è a rischio povertà o esclusione sociale. Perché dinanzi a questo plateale fallimento delle ricette economiche neoliberiste non si riesce invertire la tendenza?

 

Se parliamo di neoliberismo occorre quantomeno partire dalla crisi dei mutui subprime del 2006 e dalla crisi economica mondiale che ne è seguita e i cui strascichi non si sono ancora del tutto esauriti. A partire da quegli eventi il potere d’acquisto dei lavoratori italiani e la produttività delle nostre imprese sono progressivamente crollati. È la prova che il precariato e i bassi salari non sono la soluzione per risolvere la crisi economica. Passando alla stretta attualità, da qualche tempo leggiamo sui giornali che l’Italia è in crescita. Ammesso e non concesso che i dati propagandati dal governo riflettano davvero la situazione reale, resta il fatto che la condizione di larghissimi strati della popolazione italiana peggiora di anno in anno e complessivamente il Paese va sempre più indietro. Lei mi chiede perché non si riesce a invertire questa tendenza. Perché l’ubriacatura generalizzata della politica per il neoliberismo ha significato privatizzazioni, finanziarizzazione e delocalizzazione. Se la sinistra si riprende dall’ubriacatura allora si potrà mettere in discussione una globalizzazione che favorisce pochi a discapito di tanti.

 

Da cosa dipende la contraddizione fra un Pil in aumento e milioni di italiani restano ai margini della crescita malgrado cospicui incentivi pubblici alle imprese per favorire le assunzioni?

 

Dalla latitanza della politica. La quale avrebbe dovuto porre a Bruxelles il problema della coesione sociale, dei diritti del cittadino, della tutela del lavoro. Insomma, avrebbe dovuto battersi per porre la dimensione sociale al centro delle politiche europee. Invece, in nome dalla globalizzazione, è stato privilegiato il mercato, sono state attuate politiche estreme di flessibilità del lavoro e prosperano i paradisi fiscali. In questo contesto l’Italia si è trovata svantaggiata perché tante nostre aziende sono andate e continuano ad andare in Paesi europei dove il costo del lavoro è meno oneroso, l’imposizione fiscale più leggera, la tutela dell’ambiente meno rispettata. Si è generata così una dinamica a causa della quale i Paesi con maggiori diritti hanno finito per perderli. Dinamica che dura da almeno tre decenni e la politica italiana sarebbe dovuta intervenire perché il risultato è un Paese ogni anno più debole. Nella tanto vituperata Prima Repubblica l’Italia era una grande potenza industriale e aveva un ruolo autorevole nello scacchiere mondiale. Oggi non contiamo più nulla. Tanto è così che decine e decine di migliaia di nostri italiani ogni anno vanno all’estero a cercare fortuna.

 

A proposito di giovani, un’insistente propaganda politico-mediatica cerca di far passare l’idea che non aspirano più al posto fisso nella Pubblica Amministrazione.  È davvero così?

 

Ha detto bene lei: si tratta di propaganda. La realtà è molto più complessa, ma provo a sintetizzarla in poche parole. I giovani hanno capito che il mondo del lavoro non si esaurisce più in quello dei loro padri e che l’accelerazione tecnologica sta creando opportunità sconosciute alla società del passato. Queste opportunità significano, tra le altre cose, che si cambierà lavoro più volte nel corso della propria vita. D’accordo, ma ciò non legittima un paraschiavismo fatto di precarietà permanente, incertezza esistenziale e bassi salari. Ancora una volta è compito della politica fare in modo che i mutamenti dei processi produttivi non perdano di vista i principi di solidarietà sociale che fanno parte della nostra civiltà. Se viviamo in una società le persone non possono essere abbandonate a sé stesse. L’individualismo non risolve i problemi e allora compito di una politica riformista è fare in modo che i giovani, ma più in generale qualsiasi lavoratore, possano sempre soddisfare i propri bisogni materiali e di autorealizzazione.

 

Per un motivo o per un altro siamo sempre in crisi. Col risultato che i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri più poveri e persino chi ha un lavoro rischia di scivolare nell’indigenza. Occorre rivedere il sistema economico fondato sul profitto?

 

Va rivisto nel senso che deve essere reso compatibile con tutti gli attori che contribuiscono alla vita dell’impresa. Ma non basta: deve essere reso compatibile anche con le esigenze della società e con l’ambiente naturale. Come disse Filippo Turati le aziende dovrebbero essere intese come palazzine e i lavoratori andrebbero trattati come condomini perché l’azienda appartiene anche a loro. Non è massimalismo. Le faccio un esempio. Quando ero Segretario dei metalmeccanici se l’azienda decideva di fare degli investimenti discuteva con il sindacato su come, dove e perché. Allora il sindacato era all’apice della sua forza, cosa che non si può dire oggi. Ma ciò non significa che la richiesta di partecipazione dei lavoratori sia fuori luogo. In Germania, tanto per citare un caso, i rappresentanti dei lavoratori siedono nei Consigli di Amministrazione di parecchie aziende. Perché non può accadere anche in Italia? I tedeschi hanno capito che escludere i lavoratori rende meno competitive le imprese. Una lezione che dovremmo iniziare ad apprendere anche noi.

 

Roma, 11 luglio 2023

 

A cura dell’Ufficio comunicazione UIL Pubblica Amministrazione

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