Io e Dylan, che notte a Milano

Il lecchese Federico Bario racconta il concerto milanese dell’ex menestrello, che a 82 anni non ha smesso di regalare emozioni.

Ho un taccuino e una penna (non mi è mai accaduto di averli con me ad un concerto) e sto aspettando che Bob Dylan, che non vedo dal vivo da vent’anni, e la sua band aprano le danze; ma non riuscirò a scrivere nulla.

Il muro del suono si palesa immediatamente, costruito dagli amici riconoscenti – Grateful Dead – (e verrà evocato Buddy Holly con chitarre incandescenti e un ritmo che toglie il fiato) negli anni verdi e si manifesta con Dylan, coccolato e pungolato con rispetto e tanto amore dal gruppo che lo accompagna, con alcune varianti, da. da 35 anni.

“Cavaliere nero, cavaliere nero, sei ancora in giro...” Ma che voce! Una voce, una voce perDio! è una carezza ruvida e a tratti ironica che pone una domanda dopo l’altra; dice tante cose – indipendentemente da ciò che Bob canta e afferma. Raspa raspa raspa la Voce del signore di 82 anni, testimone del tempo andato – suo e nostro - cercatore di polveri suscitate e rese luminose nel verbo e nel suono: proiettate nel futuro, ed evocate qui ed ora. Un’emozione vigorosa mi attraversa, e penso che raramente ho ascoltato il blues, per esempio, narrato e suonato con tanta energia: certamente non da un bianco. Andiamo avanti. Il concerto propone soprattutto i brani dell’ultimo album in studio: “Rough and Rowdy Ways” (giugno 2020) “Mi accerterò che non rimanga neppure un po’ d’amore” (…) tuttavia “Contengo moltitudini” (Ed ecco Walt Whitman con tanto di barba giudaica e cappello che fa capolino (vecchio gattaccio) tra un verso e un accordo).Un lavoro apocalittico e di straziante bellezza “Non sono un falso profeta...farò vendetta sulla testa di qualcuno”; e ancora “Cavaliere nero, cavaliere nero, per troppo tempo hai fatto questo lavoro”. (“ se il mio destino è scrivere canzoni, deve essersi detto, ebbene, queste canzoni saranno l’arca di Noè, la valle di Giosaffatte in cui chiunque troverà posto accanto a chiunque altro, senza gerarchie di valori né distanze sociali. Quando avevo vent’anni mi avete detto che ero Omero in jeans, lo Shakespeare dei vicoli, il Rimbaud del juke-box? Bene, ora che ho quasi ottant’anni lo sono! Adesso posso invocare Mnemosyne in “Mother of Muses” e dirle che vorrei sposare sua figlia Calliope, la musa della poesia epica, visto che altri pretendenti al momento non ne ha. Adesso posso tirare un colpo di dadi sperando che esca “un numero tra l’uno e il due” come in “My Own Version of You”, e nel frattempo chiedermi: “Che cosa farebbe Giulio Cesare al mio posto?” (“And ask myself what would Julius Caesar do?”). Adesso posso dire come Walt Whitman “io contengo moltitudini”, posso affermare che non sono un falso profeta”, Alessandro Carrera, 2020).

Poche concessioni al passato ( Watching the River flow , 1971, Most likely you go your way and I’ll go mine , 1966) e a tutto quel che potrebbe proporre delle sue Hits, occupando così tutti i giorni della settimana in concerti senza dover ripetere mai le song del giorno prima! Il pubblico milanese lo accoglie con applausi e grida di gioia. Incontro, sorridendo, tanti giovani. Che bellezza! Quando si va ad ascoltare Dylan c’è sempre molta curiosità perché si aspetta di capire cosa e come canterà; nel contempo mi chiedo dove prende ancora tanta forza questo signore... ma si sa - da lui stesso e quello che racconta da più di 60 anni. Un fatto, questo, che ci dovrebbe far riflettere tutti quanti - e ringraziare il cielo e la terra perché noi che siamo vivi godiamo del fatto che viviamo accanto a lui (non ci lascerà soli). Da anni non si può che rimanere a bocca aperta quando si guarda alla sua storia e si ascoltano si “vedono” le sue canzoni. Dicevo, che c’è molta curiosità anche per come Dylan sa proporsi ogni volta con modalità diverse fino al punto di rendere arduo il riconoscimento della song. Non è così questa sera: le canzoni dell’ultimo album ci sono: il calore blue è quello che scalda i solchi del vinile - ma più potente: Dylan dal vivo è molto di più di Dylan su LP (almeno le tre volte che l’ho visto e ascoltato io); e mi spingo a dire che nessuna band di musicisti bianchi, appunto, è oggi in grado di parlare al presente raccontando una storia antica di volta in volta rinnovata con forza e convinzione. E confido nel fatto che il Vecchio Bob continui a creare, a raccontarci e a elaborare il passato; a smuovere le polveri da esperto archivista e ad accompagnarci per mano da Omero o da Robert Burns evocando Anna Frank e Indiana Jones. Grazie grazie grazie di esistere, Vecchio Bob. Attenzione, lo chiamo vecchio perché l’affetto e la conoscenza che mi lega all’artista è di vecchia data, appunto. Ma di vecchio in Dylan non c’è nulla: di certo non la voce: quella roca ma potente che sfoggia questa sera; e non c’è nulla di vecchio nella musica che rielabora in continuazione; non c’è niente di vecchio nel suo dire - lui che ora appare più che mai gracile dietro quel pianoforte. Infatti non suona la chitarra, ma sta seduto a un mezza coda; si alza spesso però dallo sgabello, e allora viene subito preso in consegna e spinto dal suono dei grandi musicisti – e amici - che lo accompagnano. E’ una forza anche questa band, che da 35 anni sta con lui (Never Ending Tour), e lo affianca dal capolavoro del 1997: “Time Out of Mind” sino ad oggi. Gracile, si, ma intanto Bob Dylan dipinge, scolpisce con il ferro, produce dischi di cover (vince il Nobel per la letteratura, ma questo è incidentale): Dylan uno e Dylan multiplo insomma, che continuano a dare, dare, dare. Eppure in lui non c’è alcun tipo di divismo, anzi si nota invece la timidezza dell’uomo, se non dell’artista. E una volta che ti ha preso, puoi solo seguirlo.

Infine, non è sentita la mancanza dei cellulari. E neppure l’assenza delle macchine fotografiche: c’era quel che ci doveva essere: la musica e il verbo di Dylan. Un’altra bellezza e una novità, nevvero?

Infine, ho pensato che Bob rimarrà con me per sempre (é una bella cosa: non ti lascio). E rifletto sul fatto che l’età e la vecchiaia forse appartengono più a me (che a Bob) che a quasi 68 anni non ci sono più i vecchi amici con cui poter condividere Dylan perché morto Enrico - con cui condivisi il piacere di essere presente ai grandi concerti del 1998, io a Verona e lui a Lucca, e la chiacchiera ragionata sui nuovi album - i rari (e scelti) amici rimasti non hanno seguito, giustamente occupati da interessi d’altro tipo o da altri ambiti creativi, Bob Dylan dopo gli anni Settanta, perdendo di fatto gli ultimi preziosi e fertili 25 anni della sua evoluzione poetica e musicale: della sua storia insomma, e della nostra.

E’ un peccato perché “The Times They Are a-Changin’ “, e alle meraviglie di “Like a Rolling Stone”, “Masters of War” e “The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest” ne sono seguite molte altre a mio avviso più profonde, e il poeta archivista di Duluth continua e elargire forza e bellezza e ottime poesia e musica. Confido davvero nei giovani che, come ho scritto, erano presenti in buon numero.

Infine, epilogo (a suivre?). La chiusa dell’avvenimento è affidata a “Every grain of sand”; nella mano destra di Bob appare un’armonica - come un organo? No, è l’armonica di quel ragazzo che scosse il mondo sessant’anni fa, e allora al vecchio Freddie viene da piangere, ma soprattutto da sorridere.

“Bussò a cento tombe, a cento porte del paradiso”.

Joseph Roth, Giobbe”.

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