Lecco. Piano anti delocalizzazione
No di sindacati e imprese

La norma: sanzioni e obblighi inseriti in questi giorni in legge di Bilancio Ma le linee guida scontentano tutti e non impensieriscono le multinazionali

Obbligo di comunicazione ai sindacati, alle Regioni, all’Anpal, al ministero del Lavoro e al ministero per lo Sviluppo Economico. In più, la messa a punto di un piano obbligatorio della durata massima di 12 mesi che mitighi le ricadute economiche e sociali per la chiusura dell’impresa, e sanzioni in caso di inadempienza sugli impegni assunti o sull’attuazione del piano.

È quanto prevede l’emendamento del Governo alla legge di Bilancio per il 2022 (art. 77bis) per le imprese con almeno 250 dipendenti che, senza squilibri economico-finanziari, vogliono licenziare oltre 50 persone. In mancanza del piano scatta il raddoppio, rispetto a quanto già previsto dalla legge Fornero, del ticket su licenziamenti collettivi, mentre se il piano non porta a un accordo sindacale la sanzione prevede il pagamento del 50% in più rispetto a quanto previsto dalla stessa legge 92.

Uno studio della Cgil pubblicato ieri spiega che un’azienda di circa 300 dipendenti, inadempiente verso i nuovi obblighi di legge e che decida di chiudere, pagherebbe una multa compresa fra circa 2,6 milioni e 3,4 milioni di euro.

Per i sindacati la nuova misura non affronta il problema delle numerose delocalizzazioni delle multinazionali con fabbriche in Italia che decidono di andarsene a produrre dove il lavoro costa meno lasciando per strada centinaia di lavoratori.

Il giudizio negativo arriva anche da Diego Riva , segretario generale della Cgil di Lecco, che in riferimento ai limiti dimensionali delle imprese da sottoporre alle nuove condizioni di legge e ai tempi previsti per la comunicazione e la redazione del piano industriale sottolinea come la nuova misura escluda di fatto le aziende «che oggi stanno chiudendo e che hanno già avviato le procedure di licenziamento collettivo. Il piano industriale – sottolinea Riva – non obbliga a mantenere i livelli occupazionali, ma si limita a gestire “meno traumaticamente” la chiusura e i conseguenti esuberi, e in caso di cessione non vi è in capo al cessionario alcun obbligo di garantire i livelli occupazionali né i trattamenti retributivi e normativi dei dipendenti ceduti. Inoltre non si richiede alcuna autorizzazione del Piano da parte del soggetto pubblico o del soggetto sindacale», visto che tutto si può concludere col pagamento di sanzioni.

Walter Fontana , presidente di Fontana Group, impresa dell’automotive con 750 dipendenti fra Calolziocorte e Calco e altri 400 fra le fabbriche in Turchia e Romania («dove – afferma l’imprenditore – ho localizzato e non delocalizzato, a beneficio della crescita in Italia») ricorda che «andare dove il lavoro costa meno è nella cultura delle grandi multinazionali. Per il Ceo di una multinazionale far lavorare un italiano o un rumeno non fa differenza, perché è pagato in funzione di come riesce a far andar bene l’azienda e perciò se vede opportunità di migliori rendimenti cambia sede. Diversa – aggiunge Fontana – è la cultura dei nostri imprenditori, nati piccoli e diventati grandi senza smettere di far lavorare gli italiani. Altra cosa sono le aziende italiane come la mia, che investono all’estero per avere un prodotto più competitivo che contempla attività specifiche e qualificate di lavoro in Italia. Nel 2021 ho assunto 130 persone nel Gruppo, di cui 80 in Italia».

Fontana spiega di non credere all’efficacia delle multe per grandi imprese mondiali che fatturano miliardi: «Se vogliono chiudere, mettono le sanzioni nel budget e comunque chiudono, costi quel che costi. Se individuano altrove opportunità di minori costi e maggiori guadagni chiudono e se ne vanno. Servono negoziazioni intelligenti per aiutare a sviluppare e a mantenere l’occupazione».

© RIPRODUZIONE RISERVATA