Quando gli alimenti arrivavano dai monti

Le donne scendevano a valle con i gustosi prodotti del loro orto e qualche gallina da vendere Cosi mantenevano le famiglie. Da Uschione mele, prugne, castagne e le richiestissime amarene

In Europa, di questi tempi, si parla insistentemente di carne coltivata e di carne di grilli, mentre la gente è sempre più portata alla ricerca dei prodotti tipici e naturali. E a questo proposito mi viene in mente quanto succedeva dalle nostre parti appena una settantina di anni fa.

Uova e formaggi

Ogni giorno, o quasi, dai monti e dai paesi circostanti arrivavano a Chiavenna persone, quasi sempre donne, a vendere ogni tipo di prodotto della terra e qualche gallina. Non erano né agricoltori né allevatori di professione e magari avevano anche una pesante famiglia sulle spalle, ma dal loro piccolo orto o dal pollaio traevano quel che riuscivano e lo portavano nelle case dove sapevano che quei prodotti sarebbero stati graditi e acquistati. Portavano uova, formaggi, frutta, latte ecc.

Da Uschione arrivavano le mele, le prugne, le castagne, ma soprattutto le amarene, particolarmente apprezzate.

A proposito di queste ultime, negli anni scorsi era stata fatta una lodevole campagna per salvarle e per introdurre piante nuove, ma non ne ho più sentito parlare. Pensare che con le amarene a Uschione una volta facevano persino una specie di vino! Ancor prima mi dicono che le ragazze di lassù scendevano a vendere fascine, una volta tanto richieste per alimentare i camini delle case, e il loro banco di vendita erano le due panchine che sono a lato della fontana in piazza San Pietro. Sulla casa che fa da fondale è dipinto un uomo affacciato alla finestra. È un lavoro del pittore-fotografo Francesco Prevosti, che abitava vicino, e che sul finire dell’Ottocento volle raffigurare un certo Pasquarèl che si dice fosse di Prata. Questi, avendo un locale in affitto in quella casa, soleva starsene tutto il giorno alla finestra ad ammirare le belle ragazze di Uschione che vendevano fascine.

Da Pianazzola scendevano le donne a portare verdura, uva, quand’era il suo tempo, e pesche. Queste le ricordo anch’io: erano piccole, quasi sempre un po’ segnate dalla grandine e dalle beccate degli uccelli. Oggi non si potrebbero vendere, perché quel che interessa (ai venditori!) è che siano di gradevole aspetto: se poi sono insipide, non importa, l’importante è che siano belle e lucide! Avevano quelle peschette un sapore leggermente amarognolo che era una bontà. So che crescevano in mezzo alle viti, dove allora c’era di tutto. In autunno, dopo l’uva, passavano nelle case quelle che vendevano le nespole. Dal piano arrivavano i fichi. Dalla Valle (intendo quella per antonomasia nel Chiavennasco, la valle dello Spluga o di San Giacomo, come si diceva una volta) arrivavano i prosciutti e la pancetta, che si scioglieva in bocca. Ricordo quella di San Giacomo ricavata da maiali (una volta solo neri) cresciuti a castagne.

Di stagione

Allora al cambiare delle stagioni, anzi dei mesi, cambiavano anche i prodotti, i cosiddetti prodotti di stagione, che adesso sono disponibili sempre. Se una volta il profumo di arance e di mandarini era solo del periodo natalizio, adesso c’è sempre e si vive sempre meno in simbiosi con la natura. Bene? Meglio? Per me no.

C’era poi chi verso sera faceva il giro del latte, casa per casa. Oltre alla garanzia della sua freschezza, era una grande comodità, senza dover andare alla latteria con il secchiello prima, poi con le apposite bottiglie di vetro e il tappo in stagnola. Quando arrivavano le feste di Natale e di Pasqua erano gli stessi a offrire le carni, provenienti da bestiame da loro allevato, non certo con mangimi e prodotti chimici.

Un mondo scomparso e cambiato, com’è nella storia dell’uomo, anche se il cambiamento da metà Novecento a oggi è stato vorticoso come non mai, trascinando con sé anche il molto di buono che era nella tradizione. Ma qualcosa si può ancora fare, non per tornare indietro che è impossibile e assurdo, ma per salvare quanto di buono c’era nel passato, rivivendolo con le disponibilità di oggi. Prendo ad esempio una località non molto distante dalla Valchiavenna, Morbegno, dove ogni settimana, presso la chiesa di San Giuseppe, la Coldiretti organizza un piccolo mercato, dove chi ne ha la possibilità e la voglia porta i prodotti del suo orto e li mette in vendita. Una volta in tutti i centri storici c’era la piazza delle erbe, che era riservata proprio a questo tipo di mercato agricolo, dove potevi trovare ogni prodotto porta a porta, come si dice oggi. Perché non istituirlo anche a Chiavenna, magari in “piaza Növa”, che oggi – lo dico per i giovani che non lo possono sapere – è piazza Crollalanza? Sarebbe anche un modo per far rivivedere questa piazza che, pur essendo in centro, è morta e per gran parte ridotta a parcheggi di auto,

Già qualche cooperativa sociale lo fa lungo la via di mezzo, ma dovrebbe essere un’iniziativa periodica e generalizzata, aperta alla partecipazione di chiunque voglia. Con vantaggi per chi vende, ma anche soprattutto per chi acquista, sapendo di trovare prodotti genuini della propria terra, senza particolari lavorazioni e “lucidature”, le quali accontentano la vista, ma non il palato. Credo che gli espositori non mancherebbero.

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