Meloni vittima della “sua” riforma

Il contrappasso lo ha inventato il sommo Dante che, oltre che essere un grandissimo letterato era anche un politico. Sarà per quello che questa forma per cui un peccatore si trova costretto a scontare una pena corrispondente alla colpa, ricorre in politica. Ammesso che sia una colpa propugnare il presidenzialismo come forma istituzionale per la Repubblica italiana (e per molti lo è), ora Giorgia Meloni, convinta sostenitrice di questa riforma, si trova forse a subirla da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che ancora una volta, com’è accaduto ad alcuni suoi predecessori, si trova a interpretare in maniera piuttosto elastica le prerogative che la Costituzione attribuisce al capo dello Stato nella nostra Repubblica, Parlamentare.

Per restare all’oggi, l’inquilino del Quirinale, di fronte al rischio di veder perdere i fondi europei del Pnrr a causa delle difficoltà del ceto politico a più livelli, si è sentito costretto a prendere in mano il dossier. E non solo attraverso quella moral suasion che ci si aspetta da un presidente della Repubblica che lascia fare la propria parte al governo e al Parlamento. In un immaginario dialogo con i suoi consiglieri dentro il palazzo dei papi e dei re, Mattarella potrebbe aver detto: «Il premier Giorgia Meloni è bravo, volonteroso e preparato, ma su questa faccenda del Pnrr, fondamentale per il futuro del paese e del rapporto tra quest’ultimo in Europa, non ha i giusti aiuti. Ci devo pensare io, mio malgrado». E per farlo il capo dello Stato, al di là delle smentite di prammatica, ha convocato Paolo Gentiloni, commissario europeo, per cercare di tranquillizzare Bruxelles, ma anche Mario Draghi, ex presidente del Consiglio voluto dal Colle in un’altra situazione in cui è stato tirato l’elastico dei poteri costituzionali, che è quello che ha fatto partire i progetti del Pnrr. Giorgia Meloni che è una persona intelligente e possiede il senso delle istituzioni (o vuole mostrare di possederlo) ha accettato di buon grado l’intervento del Quirinale, anche perché, con ogni probabilità non sapeva più da che parte girarsi. Ma così è stata vittima di un “presidenzialismo di fatto”, una prova di quel vestito istituzionale che lei e qualche suo alleato vorrebbe far indossare all’Italia per garantire maggiore stabilità ai governi ed efficacia alla loro azione.

In questa sede non si vuole entrare nel merito, ma solo ricordare che poiché in “politica ogni vuoto si riempie”, negli ultimi anni, al capo dello Stato è toccato più volte uscire dalla routine per tirar fuori governi e paese dalle secche a causa dell’incapacità e dell’inadeguatezza degli altri protagonisti della scena politica. Il primo a farlo con successo, com’è noto, è stato Giorgio Napolitano che, con l’Italia sull’orlo del default, aveva sostituito Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio eletto come parlamentare dai cittadini, con Mario Monti, nominato senatore a vita pochi giorni prima. Poi è toccato al successore del primo inquilino del Colle, l’attuale presidente Sergio Mattarella, mettere al posto di Giuseppe Conte, che aveva ottenuto la fiducia del Parlamento in due governi con maggioranze diverse, Mario Draghi premier, imponendolo un po’ a tutte le forze politiche.

Ma il primo a tentare un atto di “presidenzialismo di fatto” non riuscito era stato agli albori degli anni ’90 e dopo la caduta del Muro di Berlino, Francesco Cossiga. Il “picconatore” aveva inviato al Parlamento un messaggio in cui imponeva di fatto la necessità di riforme istituzionali per evitare il declino del sistema. Ma il ceto politico di allora, ancora non bombardato da Tangentopoli, aveva la forza di ignorare la comunicazione (che Giulio Andreotti, allora a palazzo Chigi aveva addirittura rifiutato di controfirmare come prevederebbe la prassi). Alla luce di quanto accaduto poi, con le mosse di Napolitano e Mattarella andate a segno, verrebbe da chiedersi se, al di là dei pregiudizi e delle opinioni di parte, in questo paese il presidenzialismo non sia una realtà da rendere perciò istituzionale.

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