Lo sport può essere considerato un lavoro? Una professione costantemente sotto i riflettori, gratificante e gratificata, spesso di lusso. Quando accade un fatto tragico come la morte di Simoncelli, c'è il rischio che la visibilità del dramma sconfini nell'esagerazione. Lo sguardo viene in questo modo allontanato da un'altra realtà, che è quella dei mille Marco ignoti, che dall'inizio dell'anno (in media tre al giorno) muoiono sul lavoro per quattro soldi, nel silenzio, lontano dalle luci invadenti dei riflettori.
Il video della sequenza mortale di Sepang riproposto all'infinito, con la bramosia di scrutare la fine per capire come sia veramente andata, riduce lo sport a un teatro dell'assurdo. Negli sport pericolosi c'è una tendenza che porta a correre dei rischi, minacciando l'integrità fisica e morale o addirittura la vita dello sportivo. Gli sport a rischio devono prendere coscienza sforzandosi di essere meno temerari. Il coraggio e l'audacia, nel contesto sportivo sono moralmente giustificati perchè consentono di raggiungere l'obiettivo.
Dato che lo sport è una attività volontaria, la decisione di competere riguarda la scelta di ciascuno, il quale sceglie consapevolmente di affrontare i rischi. E' nostro dovere pretendere il possibile per ridurrre al minimo il rischio dal lavoro e dallo sport. Dare un significato etico allo sport vuol dire riconoscere, piuttosto che negare, il rischio della morte, per rispetto di quanti non hanno tagliato il traguardo.
Angelo Perego
Merate
Caro Perego,
non neghiamocelo, a certi livelli la differenza tra sport e lavoro non esiste, specie al cospetto di professionisti e di prebende che raggiungono livelli incomprensibili per noi umani.
E di sport si è sempre morti: su due o quattro ruote, su un paio di sci e tirando calci a un pallone. L'interesse e certe pruderie fanno poi parte dell'indole umana: ci siamo trasformati in "guardoni" tecnologici e vivisezionare il dramma - da dentro e da fuori, da sotto e da sopra - non fa più notizia.
Edoardo Ceriani
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