«Guerra? Qui in Sudan siamo indispensabili»

La testimonianza Nicoletta Erba ha scelto di restare in servizio per Emergency nel Paese centrafricano. «Siamo in una posizione defilata rispetto a dove si combatte: in lontananza si vede il fumo degli incendi»

Nicoletta Erba è un medico. Cercare in lei una ragione alla sua permanenza in un Paese in guerra è come chiedere a un pesce perché viva nell’acqua. La medicina - salvare le vite, conservarle - è la sua missione, il suo lavoro. Pochi, nella sua situazione farebbero lo stesso? Può darsi, ma a lei non interessa. Professionale, misurata, per niente incline ai sentimentalismi, Nicoletta Erba parla con grande precisione di quanto sta facendo al centro Salam di Khartoum, in Sudan, terra di guerra dove Emergency sta operando anche con altri sei sanitari italiani: «Sono due cardiologi, un anestesista, due perfusioniste e un infermiere specializzata - spiega - A fronte della decisione di mantenere aperto l’ospedale abbiamo aderito, anche sulla spinta della volontà dei medici nazionali. Allontanarsi completamente dal servizio avrebbe comportato la messa in discussione di questa esperienza. Non avremmo potuto assistere i nostri pazienti».

Osservazioni banali

Altre ragioni non ci sono. Anche la banale osservazione “Ma è molto pericoloso…”, non scalfisce Nicoletta Erba: «La situazione non è tranquilla e potrebbe cambiare da un momento all’altro, ma il nostro settore non è attualmente nella zona più calda del conflitto. Resterò finché non sarà impossibile rimanere. Ci sono delle strutture di Emergency di grande esperienza in gestione di situazioni di questo tipo. Mi affido a loro e mi aspetto decisioni coerenti con quello che succederà. In questo momento non vedo motivi per rientrare. Avevo in programma di rientrare dopo tre mesi. Essendo arrivata ai primi di aprile dovrei tornare a Lecco ai primi di luglio. Dal 2018 presto servizio due volte l’anno».

La guerra è lì, anche se Erba la considera come qualcosa con cui fare i conti, ma dalla quale non essere soverchiati. «Sicuramente subiamo gli effetti del conflitto – ammette senza accenni d’eroismo - . La nostra situazione è in una posizione relativamente defilata rispetto alle aree di combattimento. Della guerra avvertiamo i rumori da lontano. Si vedono i fumi provocati dai vari colpi e dagli incendi. Ma noi vediamo le conseguenze in termini di affluenza dei pazienti. Il fatto di aver mantenuto aperto l’ospedale ha consentito ai pazienti che riescono a muoversi di accedere all’ospedale. E poi, anche la riduzione del personale che lavora qui, sia nazionale che internazionale, è un segno della guerra».

La preoccupazione

Il medico lecchese si adombra, preoccupata per gli ex colleghi: «Alcuni soggetti sudanesi che abitano in aree particolarmente colpite sono rimasti a casa fin dal primo giorno con varie difficoltà e conseguenze. Altri si sono allontanati dalla città. Ma nei fatti siamo a personale ridotto. Abbiamo avuto però un’ottima risposta da alcune figure del personale sudanese che hanno scelto di rimanere e dare una mano a mantenere attivi alcuni settori che permettono di dare continuità al lavoro svolto. Chiaro non stiamo facendo attività cardiochirurgiche. L’attività è ripresa oggi per la chirurgia per un caso urgente, ma si fa quel che si può».

La routine

Però Erba precisa: «Non lavoro nei settori di cura del malato post operatorio ma mi occupo della terapia anticoaugulante. Era così a Lecco al Manzoni, ed è così in Sudan. Abbiamo circa cinquemila pazienti che hanno bisogno di questo trattamento che è complesso sia per il continuo legame con il laboratorio che per il trattamento dei pazienti. Fin dalla nascita del Salam Center Emergency ha affiancato all’attività cardiochirurgica e cardiologica anche la mia attività. Un’attività che ha grande importanza perché garantisce al paziente operato di sostituzione valvolare con protesi meccaniche, la continuità della cura. L’anticoaugulazione è salvavita per questo tipo di pazienti e deve essere somministrata per tutta la vita. Questo servizio è rimasto estremamente efficiente in tempi di pace. In questo periodo e in questo contesto, la decisione presa, con anche una grossa collaborazione di alcune figure nazionali, è stata di mantenere aperto questo servizio. E io ho dato la mia disponibilità».

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