Io e Vasco Rossi
Una notte
tra vita e morte

Il racconto - Gian Paolo Serino rivive le ore febbrili
in cui riuscì a portare l’amico-rockstar nella sua città

Il vento corre come le furie. Accarezza i volti e dimentica i visi. Le idee sfioriscono e i sogni reclamano il proprio riscatto.

Non c’è più niente da vedere, da inseguire, tranne se stessi.

Il tempo non è più un momento sbiadito perché quando si ricorda qualcuno e lo si mette in un racconto allora quel qualcuno è uscito per sempre dalla nostra vita.

Gli anni sono tanti. Quelli che si compiono non sulla pelle, ma quelli che si nascondono nei cassetti, per poi aggrovigliarsi e diventare così: una poesia scritta sull’acqua, quando alla fine si comprende che siamo vissuti sull’orlo di come sarebbe potuta andare. Oggi racconto la storia di due esseri umani che non ci sono più. Erano due amici. Quasi fratelli. Fratelli di tormenti: stesse illusioni, stesse passioni e le stesse delusioni.

Ora sono arrivati. Chi per una strada, chi per l’altra. Entrambi giacciono in quelle tombe dell’umano troppo nascoste perché gli altri le possano vedere: sono tombe viventi. Vanno in giro, sembrano anche sorridere, ma sono sepolti dal loro stesso ego che ha perso quella purezza che allora, tanti anni fa, non era uno spartito, ma un modo di combattere la vita.

Presa a morsi.

Denti che sanguinano, ancora, ora nel Nulla di muri che un tempo erano di gomma e che ora sono invisibili perché non ci rimbalzi contro: ci svanisci dentro.

28 Gennaio 1994 ore 24

Le berline ingoiano il cielo come l’asfalto. A tutta velocità l’autostrada corre verso Como.

Sguardi di guard-rail sembrano diventati più degli specchi che lamine di acciaio. Sino a qualche minuto fa eravamo a Zocca, quella che oggi è chiamata “Zoccaland” come se un mito potesse essere ancora vivo.

Le macchine corrono. Ad alta velocità.

Non ci sono ancora gli autovelox, le auto sono fatte ancora come dovevano essere fatte, niente plastica se non a bordo. Solo qualche residuo, tra radica e pelle di qualità non ancora ecosostenibile ma che respiri come un traguardo.

Siamo arrivati.

Vasco scende a ogni autogrill. Disponibile. Firma autografi. Poi sparisce. Ritorna e poi come a giustificarsi nella sua eterna vita di scolaro sorride ironico: “Faccio pipì anche io”. Come a dire che anche le rockstar sono esseri umani.

A ogni fermata è così.

Dovevamo essere a Como per le 23, ma il tempo sembra fregarsene degli orologi che, allora, non portavamo ai polsi. E’ già la una di notte. Como è ancora lontana e la rockstar - quella che ho conosciuto cinque anni prima in conversazioni via fax che ci hanno condannato o benedetto a essere prima amici di inchiostro e poi il mio miglior amico- ha lo sguardo che sembra ancora più lontano.

Io e Vasco Rossi – che nelle mie lettere e nelle mie risposte ho sempre scritto Vasco c/o Vasco Rossi, perché comunicavo con l’essere umano non con l’icona - eravamo così diversi, eppure così uguali.

Vasco Rossi una rockstar. Gian Paolo Serino un critico letterario, il più giovane già allora in Italia. Un incontro avvenuto per quei casi della vita che per una volta non hanno guard-rail. E lì può cominciare una strada verso la libertà, una cavalcata furiosa, durata oltre vent’anni, attraverso strade mai battute prima, attraverso una parola che non significa niente, assolutamente niente, se non la tatui dentro di Te: libertà.

E fa male. Come tutti i tatuaggi interiori che, come l’Amore, sono operazioni chirurgiche senza anestesia. Con Vasco Rossi siamo stati amici per oltre venticinque anni, i conti non li so fare, li pago e basta, ma all’incirca sono quelli.

29 Gennaio 1994 ore 2.00

Il mattino sembra bussare alle carrozzerie.

Vasco Rossi non ha fretta. Gian Paolo Serino sì. Oltre che critico letterario a Como è il maggior organizzatore di feste per i licei, in una grande discoteca di Lipomo, periferia che sfiora ancora lembi di città ma intanto corre verso i capannoni del verde della Brianza. Mobili e truciolati. Profumo e statali che tagliano la gola ai sogni. Vasco Rossi è atteso come ospite da migliaia di ragazzi. Il tempo continua a infuriare contro quelli che iniziano a reclamare il biglietto d’ingresso. Vogliono il rimborso perché Vasco Rossi, sono le 2 del mattino, non c’è ancora: «Non arriverà mai», dicono, premendo alle casse. Come se un sogno si potesse rimborsare. Come se le illusioni si potessero ripagare. Eppure sono tutti in fila, ordinati, come scolari di un liceo ecclesiale. Compìti. Aspettano. I soldi indietro, che allora non avevano valore come non ne aveva la giovinezza. Ma la maggior parte di loro aspetta: hanno fiducia come l’hanno i ragazzi che non sono stati traditi.

Vasco Rossi e Gian Paolo Serino stanno arrivando a Como.

Quasi albeggia, nel cielo come nel cuore di Gian Paolo Serino. In silenzio, da mesi, sta vivendo una notte che non finisce mai. Suo padre Vittorio Serino lo aspetta in un letto quasi spento a lottare contro un cancro al cervello che, allora, era una condanna a morte ancora in vita.

Gian Paolo guarda la strada. Il Sole inizia a riflettere i suoi raggi sul parabrezza. È fine gennaio ma quel mattino sembra qualcosa in più che un’alba timida. Lui vede alzarsi il Sole come una palla di fuoco che gli mette i brividi. Le automobili corrono. Sempre più veloci. Alla meta.

Gian Paolo ha dentro una felicità immensa: dopo tante serate organizzate tra concerti e deejay conosciuti, strapagati, allora dei miti, è riuscito a portare Vasco Rossi, che non si vende per essere un ospite in discoteca.

Serino ha un giubbotto in pelle, un telefonino con il prefisso di allora, 330, ha dei jeans con delle toppe scure e asimettriche sui jeans: una più su dell’altra. Ai piedi ha degli scarponcini alti. Il tempo scorre: sulla strada come a casa sua, dove lui non c’è, in questo momento, adesso, mentre magari suo padre chiede alla madre già vedova di tutto: «Perché Gian Paolo non è ancora a casa?». Impossibile dirgli la verità. Detesta quel cantante che inneggia a una vita così differente dalla sua: lui dirigente industriale nell’alta moda, lui così ligio ad una vita sana che ha insegnato ai propri figli. Elena, la più grande, la più mite, la figlia prediletta, dai capelli nero corvino, dalla pelle bianca e dagli occhi verdi come il padre; Gian Paolo, così diverso, così estroverso da apparire timido: ribelle alle convenzioni che per lui non sono ancora convinzioni, pelle scura e occhi neri così neri che tutti dicono «Assomiglia alla sua mamma».

Già. Mia madre.

Così si ritrova di nuovo lì. In quella macchina e in quel letto. Così felice di aver portato Vasco Rossi, il sogno di tutti gli organizzatori di eventi, e fiero di essergli amico. E dall’altra suo padre, agonizzante in un letto, troppo fiero per piangere il dolore alla testa di 32 punti interni ed esterni. La scatola cranica pulsa alla ricerca dei ricordi perduti: Vittorio Serino si aggrappa alla vita con tutte le forze, come se Dio non avesse già inciso sulla sua testa la sua carezza terrena di benvenuto.

Gian Paolo è di nuovo lì: da una parte la vita che gli sorride, Vasco Rossi è arrivato a Como; dall’altra la morte che gli arride, suo padre del quale non ha notizie.

Vita e morte, morte e vita nello stesso istante. È come se li potesse sentire, quasi toccare, quasi ci fosse un filo invisibile e invivibile da toccare. È da quel momento, da quel preciso momento che Gian Paolo Serino si sentirà come si sente oggi: colpevole di tutto.

L’abbraccio alla folla

Vasco Rossi abbraccia la folla sino all’alba in un tripudio di grida di gioia, di autografi, di flash, di foto che allora non erano ancora istantanee. Il tempo vissuto non deve essere fotografato. Deve essere raccontato e per raccontarlo ci vuole uno sviluppo. Nel tempo, pochi mesi, mio padre è morto. Vasco Rossi, no. Insieme a Vasco Rossi ho vissuto giornate e nottate affrontando i discorsi più svariati, combattendo insieme a lui per un mondo migliore. Purtroppo arriva sempre un tempo in cui la rockstar ha scoperto e messo in atto un modo molto semplice per sopravvivere: vendere. A questo punto il mondo che aveva combattuto con ogni mezzo, messo con le spalle al muro, fa l’unica mossa possibile per neutralizzare la rockstar: la ingloba. La accetta come cantautore “honoris causa”, anzi come il più grande cantautore della sua generazione. Ma cercate di comprendere. La celebrità esige ogni eccesso, intendo la celebrità vera, che è una fluorescenza divoratrice e non la sobria rinomanza degli statisti sul viale del tramonto o dei sovrani dal mento sfuggente. Per celebrità intendo lunghi viaggi in uno spazio grigio. Intendo il pericolo, il confine di tutti i vuoti possibili, un uomo che impone l’erotismo del terrore ai sogni della Repubblica. Sforzatevi di comprendere l’essere costretto ad abitare regioni così estreme, mostruose e vulvari, impregnate di memorie e di violenze. Anche se per metà folle, quest’uomo è riassorbito dalla follia totale del pubblico; anche se perfettamente razionale, burocrate dell’inferno, genio tacito del sopravvivere, sa già che sarà distrutto dal disprezzo, tipico del pubblico per i sopravvissuti.

Eppure ricordo ancora che certe volte - quando dondolavo al suo fianco dietro le quinte di un concerto o mentre correvamo in macchina “a fari spenti nella notte” in cerca della nostra musica di parole che ci facesse sentire vivi - ho capito insieme a lui cosa vuol dire sentirsi liberi.

È tanto tempo che non parlo con Vasco Rossi, per il sollievo di mia madre e, credo con il sollievo della sua, ma io sono ancora qua. Non a raccontarlo, non l’ho mai fatto sino a oggi malgrado le offerte di molte case editrici, anche pronte ad anticipi di una certa importanza. No, non sto raccontando Vasco Rossi.

Sto raccontando della strana amicizia tra una rockstar nata nel 1956 e un critico letterario nato nel 1972.

Io sono ancora qua. A combattere per un “mondo migliore”. Il Vasco Rossi che vedo si limita a cantare: “Essere liberi… costa soltanto… qualche rimpianto”. Parole che conosco bene. Molto bene. Forse troppo. Perché le ho vissute sulla mia pelle facendo sempre quel che mi è sembrato coerente. Anche permettermi di mandare a quel paese, il suo, una rockstar, quel Vasco Rossi, con cui spesso ho litigato ma a cui oggi non saprei cosa dire. L’ho fatto con questo racconto. Non so se sia letteratura, ma di certo è Vita. La mia. La vita di chi ha sempre vissuto gridando “Voglio una vita come la mia”. Il resto non conta. Il resto lo assommo a quelle delusioni che non diventano neanche illusioni.

Oggi tutti chiamano Vasco Rossi: Komandante.

Sorrido. E alla mente mi viene una canzone di Francesco De Gregori:

“Generale la guerra è finita…

Il nemico è scappato…

E dietro la collina, non c’è più nessuno”.

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