Un gesto in più
prima del dopo

La foto più bella dell’anno l’ha pubblicata “La Stampa” venerdì scorso in prima pagina. Si vede una malata terminale su una barella in una sala del Rijksmuseum di Amsterdam, attorniata da tre volontari dell’associazione “L’ambulanza dei desideri”, che si occupa delle richieste di chi ormai non ha più molto tempo da vivere.

In questo caso, la donna olandese ha chiesto di poter vedere ancora una volta i quadri del suo amato Rembrandt prima di andarsene. Un ultimo respiro di bellezza prima di morire. Magnifico. Commovente. Tutta la fragilità degli esseri umani e tutta la loro inesausta aspirazione alla felicità dentro un piccolo gesto comune.

Il tema in verità non è nuovo, tanto da aver dato spunto nel corso degli anni a parecchi film – generalmente pessimi, visto che Hollywood non riesce proprio a contenersi con la melassa quando ci sono di mezzo malati, bambini e disabili – costruiti sul racconto delle ultime volontà di chi sa di essere ormai condannato. E molto spesso sembra quasi che il dolente conto alla rovescia si trasformi in una gara a fare nelle ultime settimane che ti sono concesse tutto quello che non hai mai potuto o voluto realizzare durante la tua esistenza, ma che avevi sempre sognato: lanci dal paracadute, vacanze esotiche, avventure spaziali, botte di vita pantagrueliche, ceffoni a chi sai tu covati per anni sotto una fitta coltre di paura e conformismo e così via. Una grande catarsi. Un eccesso di emozioni di certo patetico e, vedendolo dal di fuori, anche un po’ grottesco. È come se, una volta soddisfatto questo desiderio esistenziale, i conti con la vita fossero sistemati e ci si potesse preparare al grande viaggio con il cuore leggero e la mente serena. Ma all’ombra del celebre “Autoritratto” di Rembrandt o de “La ronda di notte” o de “La bambina con i pavoni morti” il sonno della morte della signora olandese, per quanto confortato di pianto, sarà meno duro?

Forse non è questa la ricetta, per quanto struggente e compassionevole, forse vedere la cosa più amata per l’ultima volta non darà requie all’indole degli uomini, che tende invece sempre a esserci, a vivere e che quindi, di ultima volta in ultima volta, vuole comunque restare per sentire, per respirare, per toccare, per mordere le cose per sempre e senza mai fine. L’ultimo desiderio non vuole mai essere l’ultimo. La rana e lo scorpione: è la nostra natura. E così, in quei momenti - sempre che uno sia così fortunato da averne piena coscienza e senza che il destino se lo porti via all’improvviso - forse è più saggia la filosofia di vita scolpita da Woody Allen in una scena magistrale di “Manhattan”, il suo vero capolavoro. Lui è steso sul divano e, come tutti gli scrittori in crisi creativa, ha perso la facondia dei tempi d’oro, tutto gli appare nero e inutile e così affida a un registratore il progetto di un racconto ottimistico: le ragioni per cui, nonostante tutto, vale la pena vivere: “Il vecchio Groucho Marx, Joe Di Maggio, il secondo movimento della sinfonia “Jupiter”, Louis Armstrong, i film svedesi, l’“Educazione sentimentale” di Flaubert, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cézanne, i granchi da Sam Woo, il viso di Tracy”. Il viso di Tracy. La fidanzata ragazzina che lui aveva abbandonato, spezzandone per sempre la purezza, per sedurre un’insopportabile intellettuale radical chic.

Un monologo passato alla storia del cinema e di così grande conforto per ognuno di noi nei momenti più tristi, quando uno inizia a sospettare che, in fondo, questa faccenda sia tutta una buffonata, una pagliacciata, tutto questo circo con noi criceti a zampettare sulla ruota per che cosa, visto che dopo sembra non esserci niente, né ragione né finalità né giustizia né risarcimento. Niente. Niente di niente, solo questo vecchio sasso. E allora, nei giorni in cui sembra svanire il conforto della fede, uno prende il microfono e ci registra le cose più care. Ognuno ha le sue, naturalmente. E tutte valgono oro, grandi o infime che siano: il primo bacio, il primo pianto, il primo tradimento, il ballo di Tonio e Ingeborg, Cicikov e Raskolnikov, la luna indifferente, “Il duro mestiere di vivere” di Rouault, gli occhi vuoti di tua madre, la testa del tuo bimbo che spunta dall’origine della vita, il 22 maggio 2010, le ciliegie, i Depeche Mode, il “colpo solo” di De Niro ne “Il cacciatore”, Emmanuelle Béart al violino, il monologo di Marsellus Wallace e chissà quante altre ancora…

Basta questo per il congedo? Chi lo sa. Ma conoscendo gli uomini, forse no. Gli uomini desiderano, una pulsione inesausta che li rende inquieti e assillanti e rovinosi e disperati. «Voglio più vita, padre!» è l’invocazione tragica dell’androide di “Blade Runner” al suo creatore prima di stritolargli la testa, una volta capito che non avrà risposta. Perché c’è sempre un obiettivo da raggiungere, un ostacolo da superare. Un rimpianto per cui struggersi. Ecco, forse andrà così. Forse non ci sarà un elenco di cose da fare o uno di quelle per cui è valsa la pena esserci. Forse rimarrà - beffa delle beffe - il rimpianto per tutte le occasioni perse, le parole non dette, le inutili durezze, gli inutili sarcasmi, le inutili meschinità. Eppure sarebbe bastato così poco per combinare qualcosa di meglio, non è vero? Una piccola parola, un piccolo gesto, un po’ di generosità, che ci sarebbe costata un po’ di generosità in più? Tutti hanno avuto almeno un tormento lungo il corso della vita, perché non siamo stati capaci di condividerlo?

Alla fine rimarrà la sensazione di questo grande scialo, di questo grande spreco di emozioni, un vago senso di dolore e la coscienza di essere stati inadeguati, superficiali, deludenti, ben sapendo che non esistono nastri da riavvolgere o registrazioni che si possono rifare da capo. Quello che è stato è stato e non ci sarà nessun Rembrandt o crociera ai Caraibi che potrà sanarlo. Un battito di ciglia e la vita è già passata: meglio iniziare da subito a sbagliare un po’ di meno.

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