Un calcio alle certezze
Del pallone e della vita

Passati i cinquanta i tempi dell’infanzia assurgono sempre più a una dimensione mitica. Uno pensa che questo rimodellarsi della memoria sia dovuto al rimpianto della purezza primigenia oppure delle illusioni non ancora frustrate dalla realtà o anche dell’assenza della cognizione del tempo che passa, soprattutto in quelle estati infinite che sembravano durare anni interi.

Ma non è così. La meraviglia di quell’epoca unica e irripetibile si basava, almeno per noi maschietti, su un’unica semplicissima cosa. A quei tempi non avevamo ancora le donne tra i piedi. Quelli erano per noi strani personaggetti assolutamente invisibili, oltre che inutili, del tutto eccentrici rispetto alle nostre traiettorie esistenziali e non si capiva davvero che ruolo avessero nell’equilibrio perfetto del nostro mondo di amici strettamente, assolutamente e rigorosamente maschile. E infatti era proprio così. Non avevano alcun ruolo. Ed era questo il motivo per il quale mai e poi mai avremmo potuto immaginare che un giorno neppure troppo lontano si sarebbero surrettiziamente introdotte nella nostra bolla con lo scopo dichiarato di condizionarci per sempre la vita. Non solo a casa, ma anche fuori. Missione compiuta. Addio all’infanzia. Perché una volta iniziato a guardarle con occhio non più puro e biavo, e quindi indifferente, ma tristemente malizioso, sarebbe stata la fine. Proprio come nella scena conclusiva del cartone animato “Il libro della giungla”.

E così, negli anni sempre meno magici della giovinezza e dell’età adulta, ormai rassegnati a subire l’invasione molesta e petulante e opprimente e possessiva dei curiosi personaggetti di cui sopra - perché con loro è una battaglia persa, tu con loro non puoi vincere, tu sei spacciato, tu devi rassegnarti e subire e tacere e masticare amaro - l’unico scampolo di libertà, l’ultima rocca di Gibilterra, l’ultimo Piave contro la loro invasione conformista e normalizzante era naturalmente il pallone. E infatti, appena loro cercavano di infilarsi maldestramente pure in quello, argomento tutto maschile se ce n’è uno, sempre che il ddl Zan non si occupi pure di questo, uno degli argomenti più formidabili per lasciarle fuori dalla porta, e dall’ignobile bivacco fantozziano davanti alla televisione, era la regola del gol che vale il doppio in trasferta.

Ragazzi, la regola del gol doppio in trasferta - che in questi giorni l’Uefa ha disgraziatamente abolito - era l’arma segreta che, dal lontano 1965, l’anno di introduzione di questa norma nelle coppe europee, ha impedito alle donne di conquistare anche l’ultimo spicchio di incontrastato dominio maschile. Era la loro kryptonite. La donna voleva parlare di calcio. Tu le chiedevi di spiegare la regola del gol doppio in trasferta. La donna non riusciva, non riusciva nella maniera più assoluta a spiegarlo, esibendosi in scene imbarazzanti, delle scene penose, delle scene davvero grottesche mentre si accapigliava con il 3-1 che vale meno del 2-0. Tu godevi sadicamente nel vederla impaludarsi nell’1-1 che vale di più dello 0-0 però, dipende, anche il contrario (vedesi Inter-Milan di Champions del 2003). Tu che, una volta stabilito in maniera incontrovertibile e anche umiliante la sua incompatibilità genetica a capire il significato della regola, sentenziavi con tono irridente e sessista di tornarsene a spignattare in cucina, che quella era roba da maschi. Erano soddisfazioni. Un po’ come vederle parcheggiare o fare i “sinceri” complimenti a una collega più bella e più giovane, giusto per tirar fuori qualche altro luogo comune di quelli che non tramontano mai…

Ed è per questo che ci era tanto cara, quella regola assurda, che aveva come nobile intento quello di spingere le squadracce catenacciare degli anni Sessanta (filosofia di gioco, ma anche di vita, su cui Rocco ed Herrera hanno costruito le loro mirabolanti fortune e Brera le sue cronache leggendarie) a cercare il gol in trasferta invece di piazzare un pullman davanti alla porta e che però nel tempo si era dimostrata del tutto illogica tanto da sortire l’effetto contrario. Chi giocava in casa aveva paura di attaccare, perché bastava un gol avversario in contropiede per costringere a una rimonta difficilissima e alla fine lo 0-0 interno si era trasformato in un signor risultato, mentre se lo facevi in campionato era una schifezza. Insomma, un’assurdità fuori dal tempo, un po’ come il lancio della monetina, il passaggio indietro al portiere o il golden gol.

Ma la gramigna è dura da estirpare e così quel ferrovecchio del calcio che fu ha resistito per tanti di quegli anni da rendercelo prezioso e indispensabile, con tutti i suoi calcoli balzani prima di ogni avventura europea delle nostre squadrette, che comunque nelle coppe sono lustri che vanno avanti a prendere schiaffi e ceffoni e gatti morti in faccia dal primo che passa. Una madeleine che ci fa tornare alla memoria quel vocabolario mitico, anche se ridicolo, sulla “squadra corsara” all’estero, appunto perché ai tempi il gol fuori casa era una rarità, dello stadio straniero “espugnato” come fosse una fortezza antica - e in effetti la regola del gol doppio in trasferta era un vero e proprio cavallo di Troia – mentre “l’ala guizzante s’involava sulla fascia”, “il tiro di prima intenzione faceva la barba al palo”, “il fromboliere infilava di giustezza”, “ il bomber incornava nel sette”. Ridicolo, certo, ma molto meno degli attuali “sciabolata morbida”, “fa densità a centrocampo”, “attaccano lo spazio” e “manda tutti a prendere un tè caldo”.

E che soprattutto le teneva alla larga. Alla larga dal pallone. Alla larga dalla partita. Alla larga dai nostri riti meschini da italiani medi frustrati, bolliti e falliti. Alla larga da noi. E invece niente. Loro arrivano. Loro arrivano e s’infilano. Loro arrivano e te la spiegano. E adesso senza più la regola del gol doppio in trasferta saranno veramente cazzi. Ma forse una speranza c’è ancora: stasera ci facciamo spiegare per bene la regola del fuorigioco?

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