Se le ombre cinesi
spaventano il mondo

Ieri sembrava di essere tornati ai giorni bui del settembre 2008, quando la Lehman Brothers si arrese e il mondo precipitò in una crisi che ancora oggi non è stata messa alle spalle. Anzi i cieli si sono fatti di nuovo scuri e le nubi stavolta arrivano da Oriente. Dopo i ribassi delle settimane scorse, solo ieri i listini europei hanno bruciato qualcosa come 411 miliardi.

Gli analisti consigliano prudenza e parlano di fase nervosa e di estrema volatilità. Ma cosa alimenta questo clima e cosa ci attende?

Il dato che spinge gli investitori verso il panico (ieri Wall Street in apertura era in negativo del 7% e le piazze europee seguivano a ruota, una cosa mai vista appunto dal famigerato 2008) è il dubbio sul reale stato di salute dell’economia cinese: per anni il Pil dell’ex Cina Popolare ha segnato performance a due cifre finché quest’anno si è fermato a un +7%. C’è il dubbio che l’ufficio statistico nazionale (controllato dal Partito) nasconda la realtà anche perchè a inizio mese l’indice manifatturiero cinese è sceso a 47,1, ai minimi da due anni. Per Moody’s il prossimo futuro cinese sarà ancora contratto con una crescita “appena” del 6% dopo il 2016.

La macchina della paura però è partita: i prezzi delle materie prime, con un’economia in frenata crollano, il petrolio in primis, e così ne risentono le casse dei paesi emergenti. Lo stesso accade per le aziende occidentali che hanno puntato sull’export in terra cinese e quindi, di converso, i riflessi cominciano a ricadere soprattutto sulle incerte economie europee. Anzi è peggio, perché le conseguenze peggiori potrebbero colpire la locomotiva tedesca, di cui la Cina è uno dei principali clienti. Un ciclo infernale, dunque, o una “tempesta perfetta” che influirà a questo punto anche sulle esportazioni americane e sul rialzo dei tassi che, a questo punto la Fed terrà fermo ancora. Per ora l’argine, in Europa, è il Qe di Draghi e lo spread dei titoli di Stato, ma nessun se la sente di dare rassicurazioni per il futuro.

Il paradosso, dice qualcuno, è che il capitalismo deve affidare ora la sua stabilità a un Paese guidato dal partito comunista. Partito che, nell’impasse e nel timore che la bolla che sta scoppiando e colpendo le nuove classi medie possa far traballare perfino il suo potere, ha pensato bene di intervenire con la manovra classica della svalutazione dello yuan per spingere i prodotti cinesi sui mercati esteri. Forse potrà servire, per ora i segnali vanno in un altro senso. Pechino ora cerca di immettere liquidità nel mercato, ma l’intervento sembra tardivo e parziale. Mentre dal canto loro, per non correre rischi, i principali gruppi automobilistici stanno riducendo la produzione in terra cinese. Forse lo stesso faranno i big di Internet e dell’hi-tech con conseguenze sugli utili che non aiuteranno chi è alle prese con una crescita stentata a riprendersi. Paesi e governi i quali, forse, potrebbero riflettere sul fatto che se in giro per il mondo c’è tantissimo denaro, solo una parte di questo va nell’economia reale, nel mondo della produzione mentre il resto rimane ostaggio della finanza. E questo, anche in un Paese comunista - o capitalcomunista come la Cina - non va bene.

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