La vera capitana
si chiama Margaret

Quelli di sinistra possiedono un talento formidabile nel non capire mai una mazza della modernità. È uno dei prezzi da pagare all’ideologia, al moralismo, al velleitarismo, all’arroganza della superiorità antropologica che gli fa idealizzare un mondo immaginario che non ha alcun legame con la realtà e al quale, però, per motivi misteriosi, tutti gli esseri umani dovrebbero uniformarsi.

Sembra il canovaccio perfetto per spiegare la scomparsa, soprattutto in Italia, di qualsivoglia opposizione ai partiti sedicenti populisti, ma se vogliamo costruire un ragionamento politico che vada un centimetro al di là del nostro naso, rappresenta invece un’onda lunga che era già emersa un quarantennio fa. È proprio nel pieno degli anni Ottanta, infatti, che la sinistra ha iniziato a non azzeccarci più niente, tutta abbarbicata ai suoi totem culturali, sindacali, massificatori mentre invece la società, uscita dalla recessione e dalla sindrome psicologica del terrorismo, già galoppava verso lidi a loro sconosciuti.

Emblematica, a tal proposito, la demonizzazione di un fuoriclasse della politica come Margaret Thatcher. Alla quale la vulgata sinistrorsa riservò gli stessi epiteti, gli stessi insulti, la stessa demonizzazione che dedica oggi a Salvini: fascista, nazista, razzista, schiavista, imperialista, sfruttatrice, delinquente e tutto il resto della retorica postsessantottarda, gruppettara e velleitaria che ha contraddistinto il regime culturale dei bei tempi. Bene, cosa ha combinato di così grave Maggie durante il suo decennio al potere? Ha stravolto il paradigma della politica degli imbelli governi laburisti degli anni Settanta, che avevano portato il Regno Unito a un passo dalla bancarotta, ostaggio di sindacati estremisti, con inflazione galoppante e alta disoccupazione. La premier ha avuto il coraggio sfrontato di mettere la parola fine al sistema keynesiano e di inaugurare il corso del turboliberalismo che, nel bene e nel male, ha segnato il trentennio successivo. Libertà economica, lotta all’eccesso della tassazione, taglio della spesa pubblica e di quella assistenziale, feroce tonsura del ruolo dello Stato, potere liberatorio del mercato e diritto inalienabile di godere dei frutti del proprio lavoro si rivelarono come una liberazione per chiunque non si adattasse alla realtà, ma volesse cambiarla e per chiunque volesse far emergere il merito, le capacità, il coraggio, il valore del rischio d’impresa.

Ora, è evidente che questa filosofia politica ed economica non fosse la Bibbia - e quale lo è? - ed è ancora più ovvio che l’universo progressista legato a riferimenti culturali diversi e opposti avesse pieno titolo a contestare una visione del mondo del genere, che oggettivamente produsse strappi sociali dolorosissimi e sacche di emarginazione inaccettabili. Ma quello che non si sarebbe mai dovuto fare era ridurre questa rivoluzione all’ennesima rivisitazione del fascismo, dell’autoritarismo, della reazione eccetera e usare una volta ancora lo strumento della demonizzazione come arma della peggio sinistra per buttare i propri nemici fuori dall’arco costituzionale. D’altronde, negli anni Sessanta non era stato riservato lo stesso trattamento a De Gaulle? Se si voleva combattere la Thatcher, anche radicalmente, bisognava però prima capirne tutto il valore, tutta la portata storica, tutte le radici, le visioni, non ridurla a golpista in gonnella o vessatrice sadica dei poveri minatori. Con questa retorica ci si pone fuori dalla comprensione della realtà, si smarrisce il contatto con la vita vera e si perdono tutte le elezioni. Come inesorabilmente è accaduto.

Ma questa lezione sembra non aver insegnato nulla. Equiparare, come stoltamente fa oggi la pubblicistica di sinistra, personaggi tipo De Gaulle, Thatcher e Reagan con Salvini, Meloni, Orban e compagnia, oltre a essere ridicola come accostamento - i primi tre sono dei giganti del Dopoguerra, gli altri tre un attimino meno - è proprio sbagliata concettualmente. La Thatcher era figlia di nessuno, di modestissimi negozianti (il nobile Giscard d’Estaing la soprannominava con disprezzo la “piccola droghiera”), ha studiato a Oxford solo grazie a una borsa di studio, insomma, si è fatta un mazzo tanto per emergere in una società tremendamente maschilista. E’ da qui che sgorga la sua severa etica della responsabilità individuale, la sua calvinista etica del lavoro. Da qui, e dalla lettura dei grandi economisti liberali dell’Ottocento, la sua visione della centralità dell’individuo - sintetizzata nel celeberrimo aforisma “Non esiste la società: esiste l’individuo” - che non significava affatto egoismo crudele che ignora la responsabilità sociale, ma che poneva al centro dell’agire umano l’individuo consapevole di sé, delle proprie scelte, del proprio ruolo, nemico giurato del collettivismo, della massa, della gente, delle truppe, del popolo bue. Categorie come “i giovani”, “i pensionati”, “i lavoratori” non avevano per lei alcun senso, perché appiattiscono e soffocano l’unicità irriducibile del singolo.

Quindi, la Thatcher non è la mamma dei populisti, ma la loro vera, unica e formidabile nemica. La Thatcher è il contrario dei populisti. La Thatcher è il contrario di Salvini. Quella destra lì è l’esatto contrario di quella destra là e mentre la sinistra, con i suoi ridicoli moralismi, ne diventa paradossalmente il miglior alleato, la Lady di ferro si pone invece come la vera nemesi, che ne sbugiarda tutti i limiti, tutte le fandonie, tutte le contraddizioni. Basta ricordarsi come bollava quelli che pensano di risolvere i problemi dello Stato facendo debito: “Non esiste il denaro pubblico, esiste solo il denaro dei contribuenti. La prosperità non verrà inventando spese pubbliche sempre più costose: non si diventa ricchi ordinando un altro libretto degli assegni in banca”. E soprattutto: “Non è mai una buona idea pensare che qualcun altro pagherà: quel qualcuno sei tu”. Altro che Carola, questa sì che è una Capitana.

@DiegoMinonzio

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