La morte di Scalfari. E’ la fine di un’era

Esiste un calcio prima dell’Olanda del 1974 e uno dopo l’Olanda del 1974, perché dopo nessuno ha più potuto giocare come prima. Esiste una letteratura prima di Céline e una dopo Céline, perché dopo nessuno ha più potuto scrivere come prima. Esiste un giornalismo prima di Scalfari e uno dopo Scalfari, perché dopo nessuno ha più potuto fare un giornale come prima.

La morte del più grande direttore italiano della seconda metà del Novecento, raccontato in questi giorni da alcuni articoli di gran livello, molti di discutibile servilismo postumo, ma anche di ancor più discutibile veleno rancoroso, e moltissimi di insopportabile egocentrismo - in pratica, quelli nei quali si inizia parlando di Scalfari e poi si finisce parlando di sé: io e Scalfari; io, Scalfari e Montanelli; io, Scalfari e Bocca; io e io e io e io… - segna una cesura non solo biografica, ma anche simbolica tra un’era che finisce e una iniziata un ventennio fa.

Ora, il punto non è tanto valutare quanto fossimo più o meno d’accordo con le idee e le linee editoriali portate avanti da Scalfari prima sul Mondo, poi sull’Espresso e infine sul suo capolavoro – Repubblica - e ancora meno sulla sua produzione saggistica, poetica e filosofica, obiettivamente meno interessante rispetto a quella formidabile giornalistica, ma quanto quel quotidiano abbia rappresentato una rivoluzione copernicana nell’editoria e nella politica italiane. Al di là del formato tabloid, dello spostamento della cultura dalla terza pagina allo sfoglio interno, dell’invenzione del retroscena e degli “spogliatoi” nella politica e nell’economia eccetera eccetera, la cosa più significativa è stata la trasformazione di un “semplice” giornale in un modo di essere, un modo di vedere le cose, un modo di vedere l’Italia. Leggere Repubblica era un’esperienza esistenziale. Quelli che leggevano Repubblica li riconoscevi per strada, per il modo di vestire, il modo di fare, il modo di pensare, il modo di essere snob, spesso arrogante e irritante, con tanto di esibizione della loro copia di Repubblica sotto il braccio (chi leggeva il Giornale di Montanelli, invece, era meglio che lo nascondesse sotto il cappotto, perché in quegli anni meravigliosi rischiava di prendersi una bastonata da qualche gruppettaro che organizzava la rivoluzione al tavolo del biliardo o nella casa del papà a Saint Moritz).

Scalfari ha avuto il genio di plasmare la gigantesca, a quei tempi, comunità di sinistra che però, allo sgocciolare degli anni Settanta, non poteva più ritrovarsi nei paletti rigidi, partitici e umbratili dell’Unità. E quel popolo lì, con i suoi atti di fede, le sue convinzioni indissolubili, i suoi odi genetici (Craxi, Andreotti, Berlusconi…), la sua superiorità antropologica, seguiva fideisticamente le indicazioni del grande condottiero. Che oltre ad essere straordinario giornalista, era forse ancor più straordinario uomo d’impresa e potentissimo politico, che tanti e tanti sono stati i governi affondati e/o costruiti in quelle stanze. Quando Scalfari pubblicava un editoriale, il premier tremava.

Quello era un mondo nel quale le élite, se si possono chiamare così, avevano ancora il controllo del popolo, se si può chiamare così. E questa non sembri un’espressione classista. Vuol semplicemente dire che quando il Pci diceva ai suoi elettori di fare così, quelli facevano così e quando la Dc diceva ai suoi elettori di fare cosà, quelli facevano cosà. E lo stesso valeva per le associazioni di categoria e per i sindacati e per i giornali, quelli veri. Soprattutto per il suo. Quel mondo, per quanto schifoso e tragico, che di mascalzoni, ladri, traffichini, servi, avvelenatori di pozzi e analfabeti sono sempre state piene le stanze del potere, dei partiti e delle redazioni, era un mondo più semplice. Qualcuno dava la linea. E quella linea veniva seguita. E nessuno la dava come Scalfari.

Adesso non si capisce più una mazza. I media non contano più niente, non li legge più nessuno, non li segue più nessuno, giornali e talk show sono soltanto contenitori dove va in onda un gran casino, dove il primo che si sveglia dice una cosa, generalmente cose a caso, parla e straparla di argomenti che non conosce, c’è uno che urla, l’altro che strabuzza gli occhi, quell’altro ancora che si esibisce in canottiera, quello che minaccia, quello che mette assieme il crocifisso, le ruspe e i maritozzi, quello invece gli immigrati, gli antifascisti e i Maneskin, quello che passa dal 3% al 35% in due anni e dal 35% al 10% in altri due, banchieri di livello mondiale e di autorevolezza planetaria bruciati in dodici mesi e sbertucciati come l’ubriaco dell’osteria del paese e tutto il resto del circo al seguito. E non c’è Repubblica vecchia o nuova o Scalfari 4.0 che possa rappresentare un faro nella notte buia e tempestosa.

Ma, in fondo, avrebbe anche potuto essere una buona notizia. Finito finalmente il tempo delle ideologie e delle appartenenze, usciti una buona volta dal secolo breve che ci ha regalato orrori e devastazioni senza limiti e confini, ecco la nuova era segnata dalla libertà individuale, dallo spirito critico, dalla possibilità, grazie al digitale, di accedere a conoscenze, informazioni e dati pressoché infiniti e quindi di formarci un’opinione davvero laica e autonoma. Insomma, essere gli Scalfari di noi stessi. E invece non è così, non è così affatto. Quel decesso non è stato sostituito da un nuovo secolo dei lumi, ma da una enorme, oceanica, montante marea di melma, di analfabetismo, di qualunquismo, di becerismo, di cialtronismo, di piazze di gente sudata e di salotti di gente altrettanto sudata e massificata e indottrinata e con l’anello al naso pronta a farsi infinocchiare dal primo demagogo da strapazzo (di destra, di centro, di sinistra) che passa.

Non è un’amara considerazione sui bei tempi che furono e sui pessimi tempi che corrono. E’ una constatazione fattuale. E’ il tempo della suburra, della canea, del popolo bue. Meglio prepararsi, prima che arrivi l’onda.

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