La manovra gialloverde
così simile alle altre

Quando Luigi Di Maio, un attimo prima di essere sommerso dalle risate, si è affacciato dal balcone di Palazzo Chigi e - con lo stesso magnetico carisma del “fiero alleaten” Galeazzo Musolesi di “Sturmtruppen” - ha annunciato alle folle osannanti che il governo aveva appena abolito la povertà, abbiamo tutti pensato che una roba del genere non si era mai vista.

Ma ci sbagliavamo, poveri smemorati. Perché nel corso degli anni e dei decenni ci siamo beccati Renzi che annunciava alle folle osannanti che avrebbe restituito alle aziende tutti i crediti accumulati con lo Stato (e giù risate), Berlusconi che annunciava alle folle osannanti che avrebbe creato un milione di posti di lavoro (e giù risate), Bossi che annunciava alle folle osannanti che avrebbe fatto la secessione della Padania (e giù risate), Craxi che annunciava alle folle osannanti che lui era il vero erede di Garibaldi (e giù risate), Berlinguer che annunciava alle folle osannanti che il Pci non prendeva un rublo dall’Unione sovietica (e giù risate)… E si potrebbe andare avanti con Prodi, Amato, De Mita, D’Alema e giù giù, attraversando i tempi di Carlo Codega, fino al Puzzone di Predappio. Ce ne siamo fatte di risate in questi decenni, niente da dire, grazie a questa inimitabile e spassosissima repubblica dei datteri, dei pulcinella e dei baffo nero mandolino.

Ed è per questo che, per quanto loro facciano davvero di tutto per meritarselo, è non solo ingeneroso, ma soprattutto storicamente sbagliato fare a pezzi l’abbozzo di manovra economica del nuovo governo. È’ facile dire che, sostanzialmente, fa schifo, che rigurgita di misure demagogiche e assistenziali, che prevede poco o nulla per lo sviluppo vero delle aziende e per il taglio vero delle tasse, che è pervasa da uno spirito antiliberale ammorbante e, soprattutto, che è ammantata da un baracconismo scenografico, da una teatralità tuittarola, da un populismo straccione che tanfa di Stato padrone, di nazionalizzazioni anni Cinquanta, di imbonimento sudamericano da commedia di Monicelli. Ed è anche fin troppo semplice ironizzare su certi ceffi, certi profili lombrosiani, certi pupazzi, certi catoblepa che ruminano nella nuova area governativa al traino sudista dei 5Stelle. Tutto vero, tutto facile, tutto da sbellicarsi, come già detto prima.

Ma è proprio in questo momento, nel momento in cui si ride e si sghignazza e ci si smascella con le mani sulla pancia per le incompetenze, le impresentabilità, i pasticci di questo o di quello, che cade sul tavolo la domanda delle cento pistole, la domanda tombale, la domanda “fine di mondo”. Ma se questi qui nuovi sono tutti fessi, opachi e analfabeti e quelli di prima erano tutti colti, probi e competenti, come mai quelli di prima hanno lasciato a quelli di dopo una situazione allucinante nei conti pubblici, nelle infrastrutture, nella scuola, nel mercato del lavoro, nella sanità, nella sicurezza eccetera eccetera? Ma non erano loro i colti, probi e competenti? Ed è qui che casca l’asino al quale, piaccia o non piaccia, possiamo dare solo due risposte. O quelli di prima, pur essendo colti, probi e competenti, si sono comunque fatti gli affaracci loro, delle loro lobby e delle loro famiglie oppure quelli di prima erano incompetenti esattamente come gli incompetenti di adesso. Oppure tutte e due, che è sempre la risposta più corretta.

La verità è un’altra. E su questa verità il circo mediatico, il carrozzone dell’informazione di regime, la morale del giornalista unificato non ce la conta giusta nel narrare le grottesche settimane del nuovo governo, che grottesche sono e tali restano. Ma che non sono, in fin dei conti, così diverse da quelle che abbiamo vissuto in passato, perlomeno dagli anni Settanta-Ottanta in poi. Ci hanno sempre raccontato di queste grandi rotture politiche e culturali, di queste svolte decisive, di questi cambi di civiltà e quindi noi popolo bue ci siamo messi in mente che quando c’era al governo la destra fosse tutto un proliferare di liberismo, liberalismo, libertarismo e thatcherismo e reaganismo ed einaudismo e libera intrapresa e spiriti animali e bla bla bla e che quando invece al governo c’era la sinistra fosse tutto un keynesismo, un socialdemocrazismo, un redistribuzionismo, un riformismo attento ai ceti più deboli, un welfarismo attento, materno e onnicomprensivo alla svedese e bla bla bla e quando, infine, c’erano i tecnici fosse tutto un rigorismo, un ascetismo, un ragionierismo, un europeismo, un algido e salomonico tecnicismo e bla bla bla. Ce ne siamo raccontate di storielle in questi anni formidabili, vero?

E invece no. Invece non cambia mai niente. Chiunque si sia succeduto nella stanza dei bottoni e si sia ritrovato padrone del vapore è stato soggiogato dallo stesso puparo e dal suo mefitico, invisibile, fangoso filo grigiastro che lega tutta la nostra politica, da Rumor a Di Maio, e che si sgrana nel solito rosario: più Stato, più spesa, più tasse, più debito, più deficit, meno mercato, meno impresa, meno merito, meno competizione, meno libertà. Le nostre manovre sono sempre a debito, i nostri tagli sono sempre virtuali, le nostre imposte sono sempre in crescita, altro che destra-centro-sinistra, perché il baraccone statale deve continuare a stare in piedi, bisogna sempre dar da mangiare alla bestia e fagocitare risorse, miliardi di miliardi, per garantire l’immobilità e l’impunità del sottobosco, del sottogoverno, della rendita di posizione, delle controllate, delle partecipate, delle sovvenzionate, del familismo amorale, dell’evasione strutturale, del mercato relazionale, delle garanzie alle caste grandi e piccole, che non vengono mai eliminate, ma al limite sostituite. Di nuovo ci sono solo gli slogan pomposi - il “Popolo della Libertà”, lo “Sblocca Italia”, il “Governo del Cambiamento” - tutto il resto invece - statalismo, condonismo, trasformismo, gattopardismo, italiettismo - è il vecchio e stravecchio del quale il giovine Luigino è solo l’ultima utile maschera.

@DiegoMinonzio

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