Gli Eterni adolescenti
e la verità di Eminem

E questi ragazzi del giorno d’oggi e questi giovani che non vogliono crescere e questi eterni Peter Pan e questa adolescenza infinita che si allunga più e più e che tanto ci fa stare in pena, signora mia, e questi mammoni, questi bambinoni, questi bamboccioni sempre attaccati alle sottane di mammà.

L’anno nuovo inizia con un signor dibattito. Grande spessore. Roba forte. Lo spunto lo offre l’autorevole rivista scientifica “Lancet”, che pubblica uno studio basato sui dati raccolti in un ospedale australiano, secondo il quale nella nostra società i bambini sono sempre più precoci, ma al contempo gli adulti sempre più tardivi, mentre l’adolescenza - terra di mezzo eminentemente psicanalitica e letteraria - si spinge ormai fino alla soglia dei ventiquattro anni. Segue polemica tra autorevolissimi professoroni, sociologi e analisti di costume della madre patria su quanto questa notizia sconvolgente rappresenti il segno dei tempi. E su come non esista più la mezza stagione, mentre sboccia una generazione di “dei senza potere”, alti, belli, nutriti, pasciuti e coccolati, ma incapaci di fare qualsiasi cosa, gli sdraiati, i lucchettati, gli smanettoni seriali autoreclusi nell’universo digitale delle loro stanzette da nerd senza lavoro, senza contratti a tempo indeterminato, senza prospettive di stipendio e di carriera, disamorati dalla politica, dalle istituzioni e pure dall’archetipo familiare e bla bla bla…

Ora, che il globo terracqueo sia popolato da ventenni e quasi trentenni babbei e ciondoloni che non sanno manco come si chiamano e che bivaccano imperterriti nel loro mondo di marzapane (chi scrive ne ha in mente uno ben preciso, ma il nome se lo tiene tutto per sé…) è un dato di fatto. Basta dare uno sguardo in giro o ascoltare qualche conversazione al bar per individuare con occhio clinico certi bradipi, certi patatoni, certi tontoloni da sit-com americana. Ma siamo davvero convinti che questi soggetti siano frutto dei nostri tempi privi di ideali, di passioni, di rabbie e orgogli e tutto il resto della retorica che ogni decennio sbrodola inesorabilmente su se stesso? Siamo davvero così sicuri che sia uno specifico di questa stagione declinante dell’impero occidentale? O è solo l’ennesimo gracile argomentino che permette di impiantare l’ennesima gracilissima polemichetta di stagione?

“I vitelloni”, ed è solo la più scontata delle citazioni, è un film del 1953, pochi anni dopo la più devastante guerra della storia, e racconta quindi un’epoca culturalmente ed economicamente lontana mille miglia dalla nostra. Eppure in quel capolavoro di Fellini viene rappresentata una gioventù di piccola borghesia che sembra saltata fuori dallo studio dei cervelloni australiani e dei cervellonissimi commentatori di costume.

Cosa c’era di più sdraiato, bambocciato, mammonato di quel gruppo di amici nella profondissima provincia riminese? Gli strepitosi protagonisti dei film del primo Nanni Moretti - “Io sono un autarchico”, “Sogni d’oro”, “Ecce bombo” - incarnano un’Italia ideologica e gruppettara totalmente difforme da quella di oggi e regalano un affresco del peggio fanfaronismo dei virgulti della microborghesia romana degli anni Settanta, che continuano a giocare ai ragazzini impegnati pur di non affrontare gli studi e il lavoro. Un tòpos formidabile che tutti quanti abbiamo visto riprodursi e gemmarsi e moltiplicarsi nelle facoltà universitarie, nelle quali albergava la massima concentrazione europea di specialisti del dodicesimo anno fuori corso, del diciotto politico e della rivoluzione proletaria organizzata nella villa di Cervinia del papà. Tutta gente, che poi, naturalmente ha fatto fior di carriere nel mondo della politica, degli affari e, soprattutto, dell’editoria. E vogliamo parlare dei ragazzotti degli anni Ottanta, spurghi di fogna dell’epoca del riflusso, del disimpegno, della morte delle ideologie, dell’etica ed estetica e dittatura della cultura del divertimento, della discoteca, dei Righeira e della Costa Brava, che quando mai si decideranno a maturare e a diventare adulti, superficiali e consumisti ed edonisti come sono?

E si potrebbe proseguire così, decennio dopo decennio, avanti e indietro, lungo i sentieri del lungo addio dell’occidente alla sua identità. Ma servirebbe a poco.

La verità è che sempre, almeno nel nostro mondo dopo l’ultima guerra, c’è stata una gioventù di fanfaroni che ha cercato in ogni modo di non fare i conti con la realtà, di cercare la protezione dentro il bugliolo di strutture familiari o familistiche o corporative che li tenesse fuori dalla sfida, dalla competizione, dal mercato, dagli sbreghi dell’esistenza e che ha poi prolungato questa perversione fino a tarda età all’interno di cosmi monopolistici: vogliamo parlare del tasso di infantilismo che gorgoglia in certe assemblee sindacali, da quelle del liceo fino a quelle di eminenti luoghi di produzione intellettuale, putacaso?

Ma al contempo, sempre e ovunque, c’è stata tutta una gioventù che, per meri motivi di assoluta modestia economica delle famiglie - la povertà è una benzina formidabile - o per orgoglio personale o per senso di rivalsa o per puro odio - e questa è la benzina suprema - contro questo o quello si è subito affrancata dalle coltri del bambinismo e ha camminato da sola per la propria strada, rincorrendo l’affermazione dei propri talenti.

Non è questione di anni Dieci, di anni Zero, di anni Novanta o Ottanta, così come non è questione di millennial o baby boomer, quanto di singoli individui. Tutto cambia tra generazione e generazione, sempre più velocemente, ma sempre ci sono quelli che dormono e quelli che corrono, quelli che bamboleggiano e quelli che sgobbano, quelli che fanno comizi alla macchinetta del caffè e quelli che crescono. E rischiano da soli, puntando su di sé. Proprio come diceva Eminem nella scena finale di “8 Mile”, un film semplice, brusco e intelligente che riassume al meglio l’etica dell’individualismo anglosassone: «Ognuno deve fare la sua cosa».

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