Due foto e quello
che possiamo cambiare

Due bambini, due immagini, che in comune non hanno solo la tenerezza. Ci ricordano qualcosa in più: che la differenza, possiamo farla noi. O meglio, dobbiamo. Anche con gesti lievi, piccoli come gli esseri umani a cui ci rivolgiamo per primi.

La vicenda è quella - in apparenza inesauribile nella sua amarezza- dei profughi alla stazione di Como. In questi giorni l’ha narrata con potenza la fotografia della bimba eritrea di pochi mesi, che dorme con la mamma. Come scriveva ieri Stefano Ferrari, non è una foto, è una bimba vera.

Ma a volte le immagini ci aiutano a documentare e a spronare, anche noi stessi. Quella del sonno di una innocente con la mamma ci ha trasmesso l’impotenza, la tristezza, lo sdegno al pensiero che non si potesse (leggi, volesse) trovare una soluzione per questi profughi bloccati dalla Svizzera: soprattutto per i più deboli.

Eppure non è così. Anche se quanto sta accadendo è una vergogna, la banalità del bene continua a scorrere senza cercare vetrina. Lo si vede negli aiuti spontanei che sgorgano tra i comaschi, meno rumorosi e quindi più forti del veleno che purtroppo sembra contraddistinguere la rete (e non solo). Forse è solo una questione di volume, vogliamo crederlo: chi semina l’odio, ha bisogno di alzare la voce.

Poi, fiorisce un’altra immagine: quella catturata da Andrea Butti mercoledì sera durante il concerto della stazione. Nemmeno in questa circostanza sono mancate le polemiche: il vetriolo che cercava di strappare il microfono dell’attenzione in una iniziativa spontanea e pacifica, che voleva essere un gesto di amicizia, un tentativo di alleviare lo sconforto e la solitudine di queste sere. Sere immobili come i profughi, alle porte di una terra che vogliono solo attraversare: ma li respinge senza guardare negli occhi nemmeno i più piccoli.

Eccola la fotografia che vogliamo ritagliare. Quasi un’altra faccia della medaglia: il volto di un ragazzino che si illumina con un sorriso, mentre suona – gioca, verrebbe da dire – con gli strumenti e partecipa a questa festa scandita dalla musica. Tutti sono felici e condividono la festa, lui poi attira la macchina fotografica con la sua contentezza timida. Non ci vuole molto a donare un sorriso, eppure sembra diventato così difficile. Non ci vuole molto a rendere la vita migliore a chi ha visto l’inferno e se lo trascina dietro, di viaggio in viaggio, di attesa in attesa. Eppure c’è chi si indigna anche di fronte a gesti lievi, che servono a lenire l’ingiustizia e le ferite.

E mentre continuiamo a ripetere “Vergogna” di fronte a questa paralisi della volontà, al flusso continuo di disperati (tra cui altri bambini e donne incinte) che cresce e si inchioda tristemente alle porte di una salvezza persino temporanea, cerchiamo anche noi un po’ di sollievo. In quei bambini, che forse un giorno ricorderanno il bene, le carezze, i giocattoli, una canzone. Quelle memorie potranno anche trasformarsi in un antidoto alle sofferenze. Magari al nostro stesso veleno, di cui non riusciamo a liberarci: non solo sui social, ma anche negli angoli più bui della nostra coscienza.

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