Adesso lo Stato
non deve abdicare

Ieri pomeriggio la prefettura ha annunciato di avere finalmente identificato l’area in cui saranno montati (a settembre) i container destinati a ospitare i migranti, quelli che da settimane sono accampati ai giardini della stazione e quelli che nelle settimane a venire si aggiungeranno ai primi (il che è quasi scontato, a meno che non diminuiscano gli sbarchi e non si diffonda una volta per tutte la voce che di qui non si passa).

Sulla carta le premesse non sembrano granché bene auguranti, visto che l’area è quella di un ex sfascia carrozze in via Regina Teodolinda, a due passi dal cimitero, uno spazio di circa 2500 metri quadrati che andrà integralmente ripulito, bonificato, riadattato. La decisione della prefettura segna però il posizionamento di un primo paletto, nel contesto di una vicenda complicatissima, diabolico combinato disposto di centinaia di variabili sociologiche, amministrative, sanitarie, politiche intrecciate sullo scheletro di una umanità che più rattrappita non si può, e sulle quali è difficile davvero formulare giudizi.

L’obiettivo dichiarato delle autorità è quello di “offrire un trattamento dignitoso”, in definitiva la prima e più urgente delle tante incombenze di questi giorni, ma rischi e incognite restano gli stessi. Intanto c’è da capire se e quanti migranti accetteranno di essere trasferiti dal giardino della stazione ai container, e in che modo affrontare un loro eventuale diniego. Ancora ieri mattina la maggior parte di loro confermava l’intenzione non solo di raggiungere il nord Europa costi quello che costi, ma anche di sottrarsi, con altrettanta determinazione, alle maglie delle verifiche e degli accertamenti di polizia, che potrebbero limitare ulteriormente le loro possibilità di tentare il grande salto oltre confine, e di proseguire la corsa verso il molto presunto eldorado di lassù.

Qualcosa andava fatto, comunque, perché la situazione dei giardini è davvero critica.

Ne parlano tutti ma - tolti i “soliti” volontari, quelli delle varie associazioni che compongono la rete di sostegno attiva in queste settimane - non sono molti i comaschi che hanno visto da vicino come stanno le cose: panni e indumenti stesi ad asciugare lungo la scalinata, rivoli d’acqua e schiuma lungo le aiuole, campetti da calcio improvvisati, sporcizia dappertutto (nonostante gli sforzi di chi coordina le operazioni di pulizia), tende e sacchi a pelo a perdita d’occhio, e cartelli, tanti, quelli che invitano a non fotografare i volti dei migranti e quelli, a fumetto - sorta di linguaggio universale - realizzati per spiegare come comportarsi con i residui di cibo, con cartaccia e immondizia.

Sullo sfondo le solite incognite, a partire da quelle di natura sanitaria e da quelle legate all’evoluzione del quadro attuale: sempre ieri è arrivata conferma del fatto che riportare i profughi verso sud, caricandoli sugli autobus, non è servito a molto. Quasi tutti quelli rispediti a Taranto - dice “radio profughi” - si sono rifatti vivi, per nulla scoraggiati, nel giro di un paio di giorni, ché del resto non sarà qualche ora di treno a fermare gente che scappa a gambe levate dal deserto arido e insanguinato del sud Sudan. La determinazione di questi disperati lascia intendere che il rischio di un ulteriore incremento di presenze sia concreto. Un mese fa, del resto, erano una ventina, oggi sono già cinquecento e domani chissà.

Allora conta soprattutto che lo Stato non abdichi, almeno non adesso. Perché non è vero che è sempre rimasto al suo posto. O quantomeno: troppo spesso, nel corso di queste ultime settimane, ha dato l’impressione di essere lontano, di limitarsi a delegare la gestione dell’emergenza a Comune, Caritas, Croce rossa e ai soliti enti di volontariato. È stato un bene, ieri, potersi ricredere.

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