Pensioni, quota 41 così non piace: «Troppi 62 anni»

Previdenza La riforma della Fornero per ora non si fa e il sindacato contesta l’unica deroga finora approvata: «Occorre sganciare i contributi dall’età anagrafica»

«Poveri quando si lavora e peggio quando si arriva all’età pensionabile». Secondo il segretario generale della Cgil di Lecco, Diego Riva, è il futuro che aspetta gli italiani «se non si metterà mano seriamente a una riforma delle pensioni che parta dai giovani».

La riforma complessiva è rinviata al 2024, come dichiarato dal sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, che ha annunciato come con la legge di Bilancio si metterà mano a modifiche per cui «a gennaio non si tornerà pienamente alla legge Fornero». Fra queste c’è quella che il sottosegretario leghista definisce “quota 41”, che secondo la Cgil «altro non è che quota 103, che non ci sta bene».

L’ipotesi annunciata è quella di mandare le persone in pensione con 41 anni di contributi versati e 62 anni di età vietando il cumulo con un reddito da lavoro, perché fare invece la quota 41 che vogliono i sindacati (andare in pensione con 41 anni di contributi senza vincoli di età) ora costa troppo. Si stima così la messa in campo di risorse per 700 milioni destinate a una platea totale fra le 45 e 50mila persone, ma dato il divieto di cumulo è probabile che le richieste si fermino alla metà del totale, com’è accaduto per Quota 100.

«Nel recente incontro con il Governo le organizzazioni sindacali hanno detto con chiarezza che la riforma pensionistica va affrontata seriamente. Queste ipotesi fatte solo per far parlare i giornali e il Paese rappresentano un metodo sbagliato, per non dire del merito, che non ci convince affatto. Per noi – afferma Riva – resta ferma la richiesta che si vada in pensione con 41 anni, ma davvero, cioè senza collegare gli anni di contributi all’età anagrafica. Detto ciò, per quanto riguarda invece la pensione di vecchiaia siamo per trovare un meccanismo che permetta di uscire dal lavoro a 62 anni e se non ci si riesce da gennaio si andrà in pensione a 67 con la legge Fornero”.

La vera riforma, aggiunge Riva, deve ripartire dai giovani a cui va data, nei periodi in cui non lavorano, la possibilità di avere comunque versamenti contributivi finalizzati a una pensione di garanzia, «per evitare di aver una pensione più bassa dell’assegno sociale. Il problema – aggiunge Riva – è culturale: se entra in gioco questo meccanismo per cui chi non lavora ha un assegno sociale e chi lavora ha una pensione più bassa, smantella il sistema pubblico obbligatorio perché a un certo punto i giovani non sostengono più coi contributi il sistema pubblico. Si rompe così il patto di solidarietà sociale fra giovani e anziani».

L’altro pilastro da rafforzare, conclude Riva, è quello della previdenza complementare perché se anche un giovane oggi lavorasse tutta la vita, le basse retribuzioni non consentirebbero comunque il recupero di quel gap utile a raggiungere assegni pensionistici dignitosi: “il meccanismo retributivo consentiva di calcolare la quota pensionistica nella misura del 2% annuo della retribuzione , dopo 40 anni di lavori si arrivava a una pensione pari all’80% della retribuzione. Col contributivo le pensioni so sono abbassate e si profila un rischio sociale. Le organizzazioni sindacali hanno fatto presente al Governo che se non darà risposte saranno messe in atto tutte la azioni democraticamente possibili per raggiungere l’0biettivo, come fatto coi passati Governi quando non hanno ascoltato il mondo del lavoro”.

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