Scialpinista cade sul Cevedale. Condannata la guida alpina

Il caso Sessantamila euro di risarcimento per la frattura della tibia. Al capo dell’ascensione contestato il fatto che il gruppo non era in cordata

Risarcimento di 60mila euro, più le spese legali. È questa la sentenza emessa dal giudice civile di Lecco Alessandro Colnaghi nei confronti di una guida alpina lecchese, ritenuta responsabile della caduta in un crepaccio di un proprio cliente, a seguito della quale lo stesso ha riportato una frattura esposta alla tibia destra, con conseguenze poi per la sua vita lavorativa e privata.

L’incidente era avvenuto il 4 marzo del 2016, durante l’ascensione, con altre 12 persone, in invernale sugli sci, della vetta del Cevedale, in provincia di Sondrio. La vittima, all’epoca di 50 anni, imprenditore di Venezia, attorno alle ore 10, è caduto per circa sei metri in un crepaccio che gli si è aperto sotto agli sci, in una fase in cui non era assicurato in cordata, per poi essere tratto in salvo dal Soccorso Alpino e trasportato in ospedale dall’elisoccorso dopo una complessa operazione di soccorso, in quanto uno scarpone della vittima era rimasto bloccato dal ghiaccio.

Invalidità del 15%

«L’infortunato – riferiscono gli avvocati Augusto Palese e Paolo Vianello, che hanno affiancato l’imprenditore veneto - il giorno dell’incidente, avvenuto nel corso della salita con gli sci muniti di pelli di foca, era il quinto della fila guidata dalla guida alpina e i componenti del gruppo procedevano tenendo una distanza di circa 10-20 metri l’uno dall’altro, come indicato dal professionista».

Dalla frattura esposta della tibia, ne sono derivate difficoltà nello svolgimento dell’attività lavorativa, con una menomazione permanente valutata da un perito nominato dal giudice nell’ordine del 14- 15%, alla base della richiesta risarcitoria civilistica.

«Il tribunale – spiegano ancora i due legali – ha sancito come l’infortunio debba essere attribuito alla condotta colposa della guida alpina, la quale ha preso la decisione di non procedere in cordata».

Secondo la linea difensiva, invece, la caduta nel crepaccio sarebbe stata una fatalità, un evento naturale imprevedibile e inevitabile, non attribuibile alla responsabilità della guida alpina, la quale avrebbe scelto di procedere non legati durante la parte bassa del percorso al fine di ridurre i rischi in caso di valanghe, per poi legarsi nella parte alta.

Valanghe e crepacci

Il consulente nominato dal Tribunale ha però valutato che la guida alpina avrebbe dovuto prendere prima la scelta di legare il gruppo, poiché nel luogo in cui si è verificato il sinistro il rischio di valanghe era assai ridotto, mentre il rischio della presenza di crepacci era ben maggiore. Una linea sposata dallo stesso giudice. S. Sca.

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