Petrosino: «Dall’Eden all’oggi
La grande sfida è saper custodire»

“Vivere nella giungla, abitare la città”: il filosofo alle Primavere di Como

Dopo i primi seguitissimi incontri del festival Le Primavere, promosso da questo quotidiano e ospitato dalla Sala Bianca del Ridotto del Teatro Sociale, che hanno permesso al folto pubblico comasco di conoscere relatrici e relatori mai ascoltati in città, ieri sera la rassegna curata da Daniela Taiocchi ha ritrovato uno dei suoi conferenzieri più assidui, il filosofo Silvano Petrosino , accolto da una folla davvero numerosa che vedeva in prima fila il presidente di Confindustria Como Aram Manoukian , il presidente di Villa del Grumello Paolo De Santis e il presidente dell’editoriale La Provinci a Massimo Caspani .

“Vivere nella giungla, abitare nella città” è il tema su cui Petrosino si è confrontato con il nostro caporedattore Vittorio Colombo . Quindi, che cosa significa abitare, e perché è proprio l’abitare a distinguere il particolare modo di esistere e di vivere dell’uomo? Perché il nostro “stare insieme”, perché lo stare insieme degli uomini, si trasforma così facilmente in un inferno? «Siamo abituati a esprimere sempre il nostro pensiero - dice - ma di cosa pensiamo noi, in fondo a nessun altro frega niente. E il dibattito non può ridursi a questo, al bar, alla chiacchiera: lo abbiamo visto con il Covid e ora con la guerra. Per questo voglio sviluppare un ragionamento, partendo dalla distinzione tra vivere e abitare. Noi siamo dei viventi e in quanto tali obbediamo alle leggi della vita, dalla nascita alla morte. La cosa straordinaria e terribile, è che noi ci rapportiamo al cibo, ad esempio, alle cose della nostra vita, con sensi di colpa, paure, angosce”».

«Le esperienze - prosegue - ci segnano, in una trama aggrovigliata. Siamo complicati, abbiamo l’inconscio, dentro di noi ci sono cose che non vorremmo neanche sapere. Il filosofo Cassirer parla di una “aggrovigliata trama dell’umana esperienza”. E spesso, invece, quando ne parliamo, abbiamo una visione del tutto superficiale». Così si entra nel vivo dell’analisi: «L’uomo fa due cose magnifiche e terribili: è l’unico capace di amore ed è anche l’unico capace di distruggere, che ha un comportamento distruttivo». Ed è quindi complicato vivere. «Adesso c’è questo elogio della natura, il ritorno alla natura, ma la natura è spietata. Nella natura non c’è né perdono né pietà. La natura non sa cos’è la misericordia. Vige la spietata selezione naturale (...) L’uomo però, a un certo momento nella sua evoluzione ha iniziato a prendere le distanze dalla giungla e ha iniziato ad abitare, quindi non più solo vivente, ma abitante. Noi, in quanto abitanti, siamo chiamati a misurare e a calcolare tutto. Ma la cosa strana e strepitosa è che l’uomo è capace ed è chiamato a misurare non matematicamente, ma umanamente, tenendo conto di cose... Di cui non si può tenere conto».

«Secondo la Genesi, Dio colloca l’uomo nel giardino dell’Eden e gli spiega cosa deve fare, ovvero coltivare e custodire ed è questa la cosa più difficile, custodire, perché s‘i custodisce la memoria. E dobbiamo custodire tutto, i nostri mari, i nostri fiumi, il nostro verde, ma anche i nostri figli... È custodire la difficoltà dell’abitare». Ma l’uomo tende periodicamente a ricadere nella giungla quando invece di custodire si mette a distruggere. Cita Italo Calvino che chiude “Le città invisibili” con le seguenti parole: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce ne è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

A partire da queste parole, Petrosino sviluppa una riflessione attorno ad alcune delle questioni ch’esse sollevano. In effetti oggi è diventato un luogo comune parlare di “città invivibili” ma raramente un simile denuncia, per certi aspetti del tutto condivisibile, è accompagnata da una seria indagine, più che sulla figura della città, sul senso dell’abitare. «In natura - ribadisce - non c’è né perdono né misericordia. Forse, per ritornare ancora una volta a Calvino, ogni stare insieme degli uomini, ogni convivenza umana, in cui non si dà spazio al perdono e alla misericordia si trasforma prima o poi in inferno, sia che questo accada in città o in campagna». E c’è una considerazione che supera le altre: «Parliamo di città perfette, di città a misura d’uomo, dove tutto e ordinato e misurato, dove tutto è perfetto, dove tutto torna. Ma questo è un inferno bianco, più terribile di quello con le fiamme. Noi dobbiamo imparare a convivere con le imperfezioni. Dobbiamo accettare che le cose non vadano come vorremmo, dobbiamo accettare che i conti non tornino, che i nostri figli non realizzino i nostri progetti, che quella donna che desideriamo tanto non si innamorerà di noi, che il nostro abitare non sarà mai come vorremmo».

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