«Negli occhi dietro le mascherine
le lacrime di medici e infermieri»

Valentina Borghesi è la psicologa del Valduce che raccoglie paure e dolori dei colleghi

«Quando l’emergenza passerà, ci sarà tanto lavoro da fare per rimettere assieme i pezzi emotivi di medici e infermieri che hanno lavorato in prima linea» per arginare la tragedia coronavirus.

Valentina Borghesi ha uno sguardo sereno, di quelli che subito ti trasmettono empatia. E pensi che non potrebbe essere altrimenti per una psicologa e, per di più, per una psicologa clinica chiamata a fornire assistenza al personale ospedaliero. La dottoressa Borghesi esce dalla rianimazione del Valduce, l’ospedale dove lavora, e accetta di sedersi qualche minuto per raccontare cosa succede nell’animo di un professionista piombato all’improvviso nel baratro Covid. È appena stata a colloquio con un collega rianimatore, uno di quelli che da almeno sei settimane vigila il sottile passaggio tra vita e morte.

Quando l’anima non ce la fa

«All’inizio dell’emergenza, come sempre avviene per tutte le emergenze, l’attivazione porta tutti gli operatori a dire: “Ce la facciamo, non abbiamo bisogno di aiuto” - spiega la psicologa del Valduce - È una reazione normale: il fare prevale sul pensare, e questo, unito anche all’adrenalina, comporta la capacità di far fronte alle fatiche emotive». Ma quando l’emergenza è particolarmente traumatica e, per di più, come in questo caso, dura un tempo assolutamente indefinito, la stanchezza - fisica ed emotiva - inevitabilmente escono e graffiano l’anima.

È qui che entra in gioco il lavoro della psicologa: «In questo momento è importante riuscire a fornire un po’ di decompressione, così da consentire a tutti di togliere di mezzo un po’ di peso per sopportare quello che arriverà. Non lavoriamo, però, nel profondo. Perché altrimenti il rischio è di andare a toccare delle corde troppo sensibili, capaci di mandare in crisi le persone. Lavoriamo in superficie, per riuscire ad alleggerire il carico emotivo».

Dietro a quelle mascherine, ai copricapi, ai caschi modello hockey, è difficile scorgere momento di cedimento. Eppure Valentina Borghesi le lacrime dei suoi colleghi le ha viste: «Piangono, certo. Poi, quando si accorgono di avere gli occhi gonfi, ti dicono sempre che è colpa della mascherina che gratta e che fa male. Ma ci sta» racconta con un sorriso che non ha nulla di ironico, ma che sa di empatia.

«Lo stato d’animo più ricorrente, con cui lavoriamo, è l’angoscia - prosegue la psicologa - Medici e infermieri sono angosciati nel vedere le persone che se ne vanno tutte assieme, velocemente e con queste quantità. Spesso si ritrovano a dover curare coetanei, magari in gravi condizioni, e dover parlare con i figli di questi pazienti che magari hanno l’età dei loro figli». Tutto questo rende ancor più difficile gestire le emozioni, scaricare l’ansia, l’angoscia, la paura: «Tanto più senti vicina a te la persona che stai curando e che sta male, tanto più questo crea angoscia». Rispetto ad altre emergenze e ad altre morti, quelle legate al Covid «ti toccano perché vanno a colpire un tuo vissuto personale» legato all’età dei pazienti, alla loro storia, alla paura di potersi trovare nelle stesse medesime situazioni. Soprattutto considerato che, su quei letti, sono passati anche molti medici.

La paura dei parenti

Accanto a questo carico di emozioni forti, c’è quello legato alla relazione con i parenti. Una relazione a distanza, via telefono ancor più complicata rispetto all’ordinario. «I famigliari dei pazienti ovviamente vivono una condizione di paura. Paura per non essere riusciti a fare in tempo a dire qualcosa di importante ai propri casi, paura che magari non venga curato a dovere, paura di non poterlo più vedere» conferma la psicologa. E queste paure inevitabilmente si riversano sui medici e sugli infermieri e su tutto il personale sanitario.

«Durante la giornata di lavoro i ritmo sono così frenetici che non si ha tempo per pensare. Ma tutto ciò che accade viene accumulato. E quando si smette di fare e si comincia a pensare, tutto quel cumulo viene fuori». Spesso sotto forma di incubi: «È l’espressione di una forte compressione dello stato emotivo più profondo. Tanti colleghi hanno riferito di problemi con il sonno».

Perché la tragedia Covid ha colpito ognuno di loro. E sarà anche per questo che i sanitari odiano sentirsi chiamare eroi. Perché essere umani vuol dire potersi permettere di versare qualche lacrima. Anche se poi racconti che la colpa per quegli occhi gonfi è delle mascherine.

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