«La ’Ndrangheta a Como
da quarant’anni»

Le motivazioni del processo Infinito: «Il primo summit sui rapporti con la Calabria nel 1976 a Laglio»

I giudici: Lombardia permeabile alle cosche. Caso Perego: ecco come terrorizzava i concorrenti

Violenze, intimidazioni, estorsioni, collusioni con uomini dello Stato e delle forze di polizia, attentati: c’è tutto il corollario classico, nelle motivazioni con cui la corte d’Appello di Milano ha confermato le condanne a una quarantina di imputati finiti nei guai nell’operazione Infinito e Tenacia, tra i quali l’imprenditore Ivano Perego, il capo della locale di Mariano Salvatore Muscatello (a cui viene contestato «un ruolo molto attivo e di vertice della ’ndrangheta»), Cosimo Vallelonga di Perego (Lecco), ma affiliato alla locale di Muscatello, Carmine Verterame e Fabrizio Parisi, affiliati secondo i giudici alla locale di Erba (dov’era, come sottolinea la sentenza, uno degli arsenali più importanti della ’ndrangheta del Nord Lombardia), e Andrea Pavone, amministratore ombra assieme all’amico Ivano della Perego Strade, la società che doveva dar da vivere a 150 famiglie in Calabria.

I giudici di secondo grado confermano sostanzialmente tutte le accuse a carico degli imputati. E in una sentenza di quasi 900 pagine ripercorrono la storia della ’ndrangheta nella nostra Regione. Fin dai primi summit, come quello a Laglio del 1976, una riunione «nella quale si decise la creazione di una camera di controllo» che si occupasse di tenere i rapporti tra i clan in Calabria e le locali in Lombardia. Una presenza storica, altro che infiltrazione casuale quella mafiosa sul Lario. E dopotutto i giudici lo scrivono molto chiaramente: va sfatato il mito secondo cui «la regione Lombardia sia tradizionalmente impermeabile alla penetrazione mafiosa».

È vero, invece, il contrario. In Lombardia la ’ndrangheta ha trovato politici, uomini delle istituzioni e delle forze dell’ordine (carabinieri, finanzieri, poliziotti, vigili urbani, perfino un inquirente dell’antimafia: nessuno escluso) pronti a fornire la loro collaborazione.

Per non parlare degli imprenditori, come Ivano Perego (da questa estate ai domiciliari, dopo la conferma della condanna in appello), un brianzolo che non esita a usare i suoi «calabrotti» per intimidire i concorrenti: «Domani vai a trovarlo e gli dici che a Orsenigo lui non deve venire» dice, ad esempio, a Strangio. Non il solo calabrese a cui si è appoggiato Perego, che ha spalancato le porte alla ’ndrangheta fin dal 2006 grazie agli uomini della locale di Erba, dove il capo, Pasquale Varca, sapeva come mettere in riga le ditte del movimento terra sue rivali: bruciando escavatori e camion. Era Erba. «Ma comandava Platì».

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