«Dio si incontra
È tra le persone
in mezzo a noi»

Enzo Bianchi questa sera al Teatro della Società di Lecco per Le Primavere de La Provincia. Ingresso libero per chi si è iscritto QUI

È un’impresa titanica quanto originale quella di lasciare il passo, dare le dimissioni, rinunciare a titolo e posizione. Per padre Enzo Bianchi la decisione di lasciare il priorato della Comunità di Bose, ufficializzata il 25 gennaio di quest’anno, dopo 52 anni, ha poi un valore se possibile maggiore perché affida ad altri quella che è stata una sua creatura. Fondò la Comunità a Bose nel 1965, anche se i primi monaci lo raggiunsero solo tre anni dopo, periodo trascorso in solitudine sulla Serra di Ivrea. Della sua vita, del valore della solitudine, delle sue esperienze discorrerà lunedì 22 maggio al Teatro della Società di Lecco alle 20.45 con Diego Minonzio e Vittorio Colombo.

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Enzo Bianchi è nato a Castel Boglione in Monferrato il 3 marzo 1943. Dopo gli studi di Economia a Torino e un promettente inizio di carriera politica nella Democrazia Cristiana, alla fine del 1965 si è recato a Bose, una frazione abbandonata del Comune di Magnano, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica che conta ora un’ottantina di membri di cinque diverse nazionalità. La comunità si è estesa anche a Gerusalemme, Ostuni, Assisi, Cellole-San Gimignano e Civitella San Paolo nei pressi di Roma. Nel 2014 Papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

Qual è il significato della decisione di lasciare il priorato di Bose e come incide nella sua vita questa scelta?

Nell’osservare altri fondatori che non avevano avuto il coraggio di lasciare e che sono giunti fino in età avanzata ho notato che la loro debolezza, dovuta all’età, finiva per non essere cosi propizia e capace di doni per la comunità. Credo che quando entriamo nell’età della vecchiaia dobbiamo esercitarci a lasciare la presa, ad abbandonare un poco per volta, perché sarebbe più duro poi l’esodo in cui si deve abbandonare tutto. Si può correre il rischio, incappare nell’illusione di portare via qualcosa con noi, mentre l’arte di abbandonare la presa ci rende più liberi, più leggeri e ci porta di più alla nostra verità di nomadi, di gente fragile che fa un viaggio su questa terra ma è un viaggio che ha un termine. Da sempre ho detto che avrei lasciato il priorato, l’ho fatto e dopo qualche mese sono contento. La scelta è stata operata con discernimento perché la comunità fosse pronta, l’ho preparata più volte avvisandola, c’erano persone che potevano raccogliere l’eredita, mi sembrava anche giusto fare un gesto di fiducia nei confronti della nuova generazione.

La chiamata alla vita monacale è arrivata dopo gli studi di economia e una vita nel “mondo” molto intensa, come è maturata una scelta così radicale?

Papà, che non era neanche credente, da uomo ironico qual era, quando sono andato a fare il monaco disse che “in ogni famiglia nasce un figlio strampalato, io ne avevo uno solo ed era lui”. Ho sempre amato il mondo e sarà difficile per me lasciarlo, alla fine, perché amo questa terra tantissimo, la osservo, la contemplo, amo l’umanità, ho avuto una vita piena di amicizie. Nella vita politica in cui mi ero impegnato anche a livello nazionale c’erano, allora, corsi di preparazione. Ero nella Dc, un fanfaniano, ma ad un certo punto ho fatto esperienza con l’Abbé Pierre, raccattando nelle strade di Rouen stracci e vecchi ferri insieme a ex legionari e delinquenti con l’indicazione di non dire nulla se non di aver cura dell’altro, di prestare attenzione. Quella esperienza mi ha trasformato. Ho cambiato il concetto di testimonianza cattolica che mi ero costruito nel lungo itinerario con l’Azione Cattolica e mi sono tornate nel cuore le letture di san Basilio, fatte quando avevo 13 anni. Ho frequentato poi i monasteri dell’ex Jugoslavia, ora si direbbe in Kosovo. Tutto ciò mi ha fatto maturare una idea monastica. Per tre anni mi sono ritirato in solitudine, nessuno mi raggiungeva ma il mio padre spirituale diceva che bisogna perseverare: “se l’hai sentito nel cuore – mi incoraggiava - non temere anche se talvolta il cielo è buio”. Poi nel ‘68 sono arrivati i primi fratelli e sorelle e la comunità si è sviluppata e cresciuta. Non ho la grazia di quelli che sentono la voce di Dio e che addirittura pensano di poterlo vedere, ho guardato molto a quello che mi succedeva con adesione alla realtà e ho avuto grandi maestri. In quei giorni di solitudine un mendicante sostava da me, in seguito è stato con noi in comunità per dieci anni. C’era un sediaio che andava in giro a fare le sedie e qualche contadino, anche loro si sono fermati con me. I vecchi mi facevano vedere che ci sono delle ragioni umane per cui vale la pena percorrere una via e che nelle ragioni umane si trova la presenza di Dio, ma direttamente Dio non lo si trova. Lo si incontra in mezzo a noi, nelle cose che ci succedono e nelle persone che incontriamo, lì parla Dio.

La solitudine come strumento, come via per leggere la realtà, è una pratica difficile, come riesce a conciliarla con gli innumerevoli impegni?

Sono stato molto attento a quello che scriveva sulla vita monastica Thomas Merton, monaco trappista, eloquente sull’agorà, sulla vita della Chiesa e sull’umanità: “la mia parola – diceva - scaturisce da un lungo silenzio contemplativo”. Allora nella mia vita c’è molto silenzio, una solitudine inviolabile, un mese intero all’anno, in gennaio, vivo da eremita perché pensando, sostando e pregando si riesce con una certa distanza a leggere meglio il mondo. Ma, intendiamoci, il mondo mi piace tantissimo. Sto bene in mezzo alla gente, non disdegno nulla dell’umanità. La ragione per credere in Dio la decidiamo qui, nelle relazioni umane

Qual è allora il ruolo nel mondo dei monaci, così come lo si intende e vive nella Comunità di Bose?

Un monaco non è né un ingenuo né un illuso né uno esente dalla storia o che fugge dalla realtà che conosciamo bene perché siamo persone di ascolto. Durante la settimana ascoltiamo decine di persone, di coppie che ci vengono a parlare delle loro vite disastrate, minacciate dalla sofferenza, dalla separazione, dal dolore e morte, da situazione infernali. L’esercizio che facciamo, anche a caro prezzo, è di guardare queste cose con l’occhio di Dio, non con il nostro. Se guardo con i miei occhi umani la persona che ho di fronte può essere un delinquente, uno scarto, se lo guardo con gli occhi di Dio è un suo figlio, qualcuno che il Signore sta plasmando, edificando. Anch’io in certi momenti non credo di essere qualcosa da guardare con compiacimento, ma Dio anche quando mi vede in queste situazioni mi guarda con occhio di amore e accoglienza e mi vede così come lui porterà a termine l’opera che io non posso portare a termine su di me.

La Comunità monastica di Bose è accogliente verso tutti e tutte e verso le altre fedi, come si riesce a conciliare questa scelta con la pratica di vita cristiana e cattolica?

Volevo vivere una vita monastica semplice e a un certo punto è arrivata una donna che desiderava farne parte. Ho chiesto cosa fare al mio padre spirituale e cardinale, mi disse: “se è arrivata avrà un significato, accogli anche lei”. È arrivato un pastore protestante ed è stata la stessa cosa. Ho detto tanti amen, ma non sono un tipo estremamente incandescente che progetta, che fa, però dico molti sì alla vita e spero di dirli fino in fondo.

Parla spesso delle sue erbe aromatiche, delle piccole cose che suscitano stupore, qual è stata quella che più ha suscitato la sua meraviglia?

La cosa più bella che ho visto sono le persone che si prendono cura di chi è gravemente malato senza che nessuno riconosca il loro ruolo, il loro lavoro. Vedere queste persone semplici che si piegano con amore fa dire che l’umanità merita che la morte non sia l’ultima parola.

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