La paura di Salah
che scopre l’occidente

E così, alla fine, quando è arrivata la resa dei conti, Salah Abdeslam ha avuto paura. Il terrorista più ricercato al mondo, metafora demoniaca dello Spietato, dell’Altro, del Diverso, del Feroce, dello Sterminatore, davanti alla prova suprema non ha trovato il coraggio di farsi esplodere come gli altri suoi complici. E adesso scappa, inseguito non solo dalle forze dell’ordine, ma soprattutto, sempre che le cronache dei media siano veritiere, dai sicari dell’Isis che vogliono giustiziare l’infame.

È solo un dettaglio, all’interno del grande caos di Parigi, ma ricco, fecondo, gravido di riflessioni profondissime. La paura è un sentimento atavico complesso, vischioso, legato a doppio filo con le nostre fondamenta più ancestrali, una delle pulsioni più feroci degli esseri umani da quando sono stati cacciati dal paradiso terrestre o da quando sono scesi dalla pianta, fate voi, un serpente insinuante, avvolgente, totalizzante, che deforma la visione della realtà, ne amplifica i rumori sinistri e rende capaci delle reazioni più stupide, ma anche più abbiette, schifose, dei tradimenti più vili. Però è anche un formidabile strumento difensivo, istinto preposto alla tutela della nostra sopravvivenza. E poi è così umano, così universale nel legare le nostre mille fragilità dentro un’unica grande famiglia di esseri miseri, caduchi e imperfetti. Bene, che c’entra tutto questo con la retorica degli invasati che amano la morte, la desiderano, la vezzeggiano, non ne temono l’ombra gelida perché certi dello splendore del premio per chi si è immolato alla più santa delle cause? Accademia. Recitazione. Coreografia.

Gli ultimi atti noti di Salah, la sua fuga maldestra verso Bruxelles, la testimonianza dei due amici che avrebbero dovuto aiutarlo e che lo hanno incontrato a Parigi sconvolto, tremante e con addosso una cintura esplosiva, ci regalano un’immagine completamente diversa da quella offerta dal solito cliché, dal solito format dell’attentatore modello, da Mohamed Atta – il principe dei kamikaze delle due torri – fino ad Abdelhamid Abaaoud – il cervello delle stragi parigine – ed è un ritratto che cambia le carte in tavola. Salah è un vigliacco, certo. Un infame. Un coniglio. Un verme. Un traditore. Uno al quale non si può che augurare di farsi prendere prima dalla polizia che dall’Isis. Un killer spietato ed egocentrico che vuole sì uccidere, ma non vuole morire. Oppure un nerd dell’islamismo, un bamboccione sanguinario che è finito dentro una cosa più grande di lui e che non ha trovato niente di meglio che infilarsi una parrucca e degli occhiali da smanettone di Twitter per mimetizzarsi durante la fuga. Forse è solo un terrorista piccolo piccolo, proprio come il suo capo Abaaoud, che, come ricordato in un pezzo particolarmente centrato e finalmente non lacrimoso di Massimo Gramellini sulla Stampa, fino a qualche anno fa postava su Facebook foto di auto di lusso e di donne nude a cavalcioni di una moto per sostituirle poi, dopo adeguato lavaggio totalitario del cervello, con quelle di cadaveri di infedeli scagliati dentro un fosso e di inni alla guerra santa. Un piccolo frustrato sanguinario: mai il male è apparso così banale.

Eppure, forse - un forse grande quanto il mistero dell’esistenza - non è andata così e questa storia ci nasconde un particolare inaspettato, toccante. Chissà cosa ha pensato Salah in quel momento. Chissà quando e da quale remoto anfratto interiore gli è sgorgato il primo pensiero tentatore, chissà quando la carezza della paura ha iniziato a circuirlo, a vezzeggiarlo, a portarlo via con sé. Chissà se c’è stata un’immagine, un ricordo, un’emozione subliminale che lo ha fermato un attimo prima di farsi saltare in aria, chissà, la vista di un bambino e la coscienza opaca che sono tutti sacri, i loro e i nostri, e che la morte dei loro non potrà mai essere vendicata dal massacro dei nostri. Oppure, il pensiero delle persone amate e del dolore infinito che gli avrebbe inflitto morendo o la vista di tanti innocenti uccisi nelle strade di Parigi che non c’entravano niente così come niente c’entrano quelle migliaia di migliaia di migliaia falciati dai nostri bombardamenti sempre più intelligenti. Forse si è reso conto che questa schifosa civiltà occidentale con le sue debolezze, le sue ignavie, la sua corruzione etica, il suo cielo vuoto senza più Dio, valori e coraggio e tutto il resto del lordume che possiamo anche ragionevolmente vomitarle addosso ha comunque dentro di sé alcuni principi solidi e sacrosanti. O forse ha capito che no, non si fa così, non si difendono in questo modo le ragioni spesso sbagliate, ma a volte anche giuste dell’Islam.

Forse, avendo vissuto tutta la sua giovane vita in Europa, nella vecchia, flaccida, cellulitica e patetica Europa, fra Francia e Belgio, ha avuto comunque modo di farsi contagiare dal suo stile di vita e forse dentro di lui, piano piano, si è insinuata la fascinazione mediocre e vigliacca di tutti noi piccoli europei decadenti: arrivare a cent’anni, darsi al jogging, giocare al ragazzino anche passati i sessanta, star bene, farsi le vacanze in Costa Azzurra e prendersi la seconda casa in montagna, scorrazzare con il macchinone, dire cose brillanti in terrazza, vedere il derby, whatsappare simpaticamente con gli amici, dibattere di Pil e Jobs act. Insomma, tutte quelle cose piccolo borghesi che loro, gli adamantini, gli incorruttibili, gli alieni, disprezzano e vogliono distruggere. Forse, infine, ha intuito che non è poi così male passare i tutti i giorni della tua vita con una famiglia e i figli e i nipoti e i compari del bar e tutte quelle buone cose di pessimo gusto con le quali riempiamo il bacile del nostro stare al mondo.

La brama di vedere la morte negli occhi è figlia di epoche eroiche, barbare e magari anche un po’ ottuse – con la morte non si gioca - e comunque mille miglia lontane e opposte dalla nostra. E forse, da ieri, anche da quella di qualche terrorista islamico. Benvenuto in Occidente, povero Salah.

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