La libertà e Salvini,
un doppio bluff

Matteo Salvini rappresenta - per ora - il più clamoroso bluff della terza Repubblica. Fa il diverso dalla casta, ma non ha mai lavorato in vita sua, carisma che peraltro condivide con quel genio della tattica (senza ironia) che è stato per anni Umberto Bossi. Si spaccia per nuovo, ma è nel palazzo da vent’anni, con l’aggravante di averne solo quaranta.

Si è iscritto all’università, ma si è arenato a cinque esami dalla laurea in scienze storiche al dodicesimo anno fuori corso, anche se questo non è un gran problema: la politica italiana è piena di scienziati incompresi. Le sue eminenze grigie – Maroni, Giorgetti, Calderoli - sono le stesse dell’epopea del Carroccio federalista, quello iniziato con l’ampolla del Monviso e finito con le lauree albanesi del Trota. E soprattutto, al di là del merito storico di aver salvato dall’estinzione un partito già morto e sepolto attaccandosi prima e cavalcando poi l’ondata lepenista e antieuropeista montata in questi anni di crisi, non ha alcuna possibilità di diventare presidente del consiglio. Zero possibilità. E se un partito, anche se triplica i voti, non ha come obiettivo realistico quello di andare al governo e di esprimerne il leader, a che serve?

Ve la vedete voi l’Italia moderata, centrista, professionale e delle imprese mettersi nelle mani di un movimento che propone l’uscita dall’euro, una riforma fiscale talmente irrealistica da cadere nel ridicolo, una gestione dei flussi migratori tutta pancia e niente testa con tanto di ragazzotti scamiciati e neofascisti al seguito? Al massimo - come peraltro sta già facendo con grande talento, niente da dire - può erodere consensi e centralità nell’agenda politica alla bollitissima Forza Italia di Berlusconi o all’impresentabile centrodestra alfaniano e morta lì. Il fattore K, stavolta, vale per lui. Non c’è visione. Non c’è scenario. Non c’è vera alternativa di contenuto e strategia che porti la cosiddetta maggioranza silenziosa – vivisezionata ieri da Pietrangelo Buttafuoco in un magnifico articolo sul “Foglio” - sotto l’ombrello di un leader veramente unificante, in grado di reggere il confronto e scoperchiare le mille balle dello schiacciasassi di Firenze, quello sì uno cattivo e con le idee chiare.

Detto questo, perché mai ieri Salvini non avrebbe avuto il diritto di manifestare a Roma contro il governo? Che c’è di inopportuno, di illegale, di inaccettabile, di scandaloso nelle sue posizioni? Perché è stato necessario blindare il centro della capitale per proteggere il comizio di piazza del Popolo dai cortei dei centri sociali, dei movimenti antagonisti e di altro ciarpame al seguito? E soprattutto - soprattutto! - perché nessuno ha difeso il diritto di Salvini e dei suoi a riunirsi in un luogo pubblico a prescindere dalle idee che esprime? Premesso che le manifestazioni di piazza, di qualsiasi colore siano, rappresentano - ad avviso di chi scrive questo pezzo - il massimo concentrato possibile di demagogia, velleitarismo, frustrazione e fanfaronaggine, qualcuno spiega perché le impresentabili, incolte, sboccate e forforose truppe cammellate della Lega fanno schifo, ma talmente schifo con i loro corni e i loro stracci verdi che bisogna togliere loro la parola, mentre le impresentabili, incolte, sboccate e forforose truppe cammellate delle meravigliose piazzate “de sinistra” rappresentano invece il frutto preclaro della sana indignazione popolare, in quanto figlie nobili della democrazia democratica sbocciata dalla lotta di liberazione e bla bla bla? Chi sono quei cervelloni, quegli intelligentoni che dividono i pani e i pesci e decretano quali idee siano consone a una manifestazione e quali no? A quale arca di scienza si abbeverano i santoni della verità per dare o togliere diritto di cittadinanza a questo oppure a quello?

E noi, noi grandi maestri di pensiero dell’informazione globale e libertaria, come mai ieri non eravamo tutti quanti in piazza del Popolo a difendere il sacrosanto diritto di chiunque a manifestare per il proprio credo, a offrire il nostro petto ai sampietrini nemici, a ribadire che potremmo anche sacrificare la nostra vita per difendere un’idea che non condividiamo, come diceva quello là? Dove sono le bandierine sventolanti, le matitine al cielo, i ditini indignati alle macchinette del caffè contro il vile attacco alla libertà di parola, le felpe (che al povero Salvini piacciono tanto) con l’eroico logo ”Je suis Salvini” e tutti i bei discorsi lambiccati e affettati e azzimati e seriosissimamente seriosi sulla sacralità del diritto a essere liberi a prescindere, a ogni costo e a qualsiasi prezzo? Che c’è, la libertà vale solo se sei un intellettuale engagé della rive gauche che gioca al pierino con la religione e diventa melma purulenta se invece c’è di mezzo un buzzurro secessionista della Val Camonica che canta “Napoli colera” all’osteria?

Niente. Vuoti pneumatici. Assordanti silenzi. Pagine bianche. Ossi di seppia. Voltaire nello sgabuzzino, assieme al Subbuteo, al vestito delle nozze e all’oscilloscopio della Scuola Radio Elettra. La piazza è roba loro, di quelli che l’hanno ingombrata per decenni - tra l’altro con splendidi risultati, come si può vedere - e che ne hanno fatto il monolito grazie al quale bloccare sempre tutto. Perché lì dentro, nella nostra Italietta pulciosa e farisaica, non c’è morale, ma moralismo. Anzi, doppio moralismo. Le cose non hanno mai un valore assoluto, ma solo se vengono prese per il verso che ci fa comodo, che è poi sempre quello della solita intellighenzia da terrazza, del solito trito sinistrume che si ritiene - chissà perché - depositario di diritti inviolabili, del solito sindacalismo ottocentesco secondo il quale ogni imprenditore è un padrone ladro e schiavista e ogni autonomo un laido evasore fiscale con sacchi di milioni in Svizzera.

La libertà è una roba seria, cari moralisti da quattro soldi, quando capirete che vale anche e soprattutto per i sopracciò alla Salvini sarà sempre troppo tardi.

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