La destra italiana
fa ridere e piangere

Il centrodestra, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. È vero che ultimamente si passano le serate sul divano con pizza e birra a sghignazzare degli strafalcioni dei liceali del Movimento Cinque Stelle, anche perché non c’è niente di più comico di un moralista da quattro soldi beccato con il sorcio in bocca. Ma è un errore. Il vero spasso, il vero Barnum, il vero avanspettacolo, la vera Armata Brancaleone, sta tutta da un’altra parte. È lì dove rivolgere lo sguardo, se uno ha bisogno di una forte iniezione di autostima. Basta vedere in azione un qualsiasi leader (?) del centrodestra e torna subito il buonumore.

Ora, niente di particolarmente nuovo, in verità. Che quell’area sia allo sbando da tempo è cosa risaputa. Che il tramonto anche triste di un gigante della comunicazione, del marketing e – piaccia o non piaccia - della politica come Berlusconi sia inarrestabile e aggravato dalla malattia che lo ha via via tolto dalla prima fila del palcoscenico, lo è altrettanto. Che tutto quel mondo non sia mai riuscito a capire, e quindi a prenderne le contromisure, sia il fenomeno Renzi sia l’esplodere del vulcano grillino, anche questo è certo. Ma il dissolvimento caporettiano, albertosordesco, la rotta di massa dettata dal si salvi chi può, le faide interne tra capi, capetti, liderini straccioni ed ex emergenti precocemente adagiati sul carrello dei bolliti, squaderna davanti agli occhi della nazione - che, ricordiamolo, al sessanta per cento è conservatrice - uno scenario antropologico dentro il quale non si capisce più niente, si raccoglie di tutto e, soprattutto, nessuno comanda. Fate la conta: il reduce duro e puro che bisogna riscoprire lo spirito del novantaquattro (che è durato sei mesi, ma che ti spacciano come l’apogeo di Carlo V), il margnaffone ex socialista, l’energumeno ex missino, la sciampista assurta a onori ministeriali e paraministeriali perché lei è una tosta che si è fatta da sé, il demagogo che i negri li rispediamo tutti a casa loro a calci in culo, il giornalista con la schiena dritta che però la politica è sempre stata la sua passione e poi cariatidi inchiavardate allo strapuntino, caratteristi da rivista, salmerie assortite, frotte di miracolati dal tocco magico di Silvio oggi alla mercè del primo che passa. Insomma, un coacervo reso ancora più grottesco dallo sbraitare di giorno contro il governo del ducetto di Firenze per poi farci gli accordi la notte, come nel più vieto schema della prima Repubblica, e che ha raggiunto l’apice alle elezioni di Roma, dove è riuscito nell’impresa napoleonica di rimanere addirittura fuori dal ballottaggio. Geniale.

La cosa fa ridere. Però, a pensarci bene, fa pure piangere. Se c’è un paese al mondo che necessiterebbe di dieci anni di serio, feroce e implacabile governo liberale, beh, questo è l’Italia. Una rivoluzione radicale per mettere fine alla dittatura dei sindacati, delle caste ministeriali, delle imprese sovvenzionate e controllate e partecipate, del familismo amorale, del dominio della relazione e della affiliazione sul merito e la competenza, dell’evasione fiscale più scandalosa del mondo combinata e disposta con la tassazione più scandalosa dell’universo, del voto di scambio, del qui è tutto un magna magna e bla bla bla. Questa era la grande sfida che avrebbe dovuto informare di sé tutta l’epoca Berlusconi e qui, proprio qui, risiede il suo totale fallimento, altro che cene eleganti, ragazzine e conflitto di interessi. E il non aver saputo e, soprattutto, voluto, creare una classe dirigente di gente capace e autorevole per circondarsi invece di falliti, signorsì, quaquaraquà e oracoli dell’I Ching del servilismo rappresenta il vulnus storico che nessun vero liberale potrà mai perdonare al Cavaliere. D’altronde, quando uno crede di essere un dio – e tanti successi clamorosi lo hanno indotto a pensarlo per davvero - e di poter quindi bastare in tutto e per tutto a se stesso, alla fine non può che infilarsi in una situazione nella quale al di là di lui non può esserci niente. Fa parte della sua natura, davvero straordinaria, che però ha devastato fino alle radici la sua coalizione e ora sembra davvero difficile che il pur interessante Parisi possa avere la forza di ricostruire il tutto dal nulla. È vero che è uno che quando lo senti parlare non ti fa ridere e quindi siamo già molto avanti rispetto alla media dei suoi colleghi, che infatti già tramano in gruppo per affossarlo. Ma fare di quella paccottiglia un vero partito conservatore europeo è davvero un vasto programma. Povero Parisi…

E tutto questo gran casino si riverbera naturalmente anche su Como, da sempre terra fortemente conservatrice e storico bacino di voti del centrodestra. Qui siamo proprio alle comiche. Ragazzi, girano dei nomi dei possibili candidati alla carica di sindaco, ma dei nomi, che non ci si crede. Mancano solo il Marsigliese, l’Uomo Salsiccia e il Pagliaccio Baraldi e siamo al completo. Gli ultimi pissi pissi, tanto per dire della dimensione lombrosiana della faccenda, hanno suscitato grande ilarità in redazione e anche qualche nota di apprensione sul tasso alcolemico dei coordinatori di Lega e Forza Italia. Ora, con tutto il rispetto, sarà il caso che Fermi, Molteni - e magari pure l’onniscente, acuto e astutissimo Alessio Butti - si ricordino che questa è una terra nobile, ricca e figlia di una grande storia che deve affrontare disastri come le paratie e la Ticosa per colpa esclusiva di una ex giunta circense che dovrebbe sotterrarsi per i prossimi vent’anni, viste le calamità che ha prodotto (tra cui anche quella di aver fatto vincere Lucini). Quindi, per cortesia, i prossimi summit evitino di convocarli al bar della stazione, non eccedano con gli spritz e vedano di tirar fuori un nome decente della società civile. Perché se insistono con i sarchiaponi, i traffichini e le teste di legno e non sono manco capaci di tenere a freno i mitomani li attende su queste colonne un anno molto, ma molto complicato.

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