Berlusconi divorato
dalla sua rivoluzione

“Troverai sempre uno più puro che ti epura”. Questa grande massima di Pietro Nenni può assurgere a metafora dell’epocale passaggio del Milan da Berlusconi ai cinesi. Epocale perché, appunto, chiude un’epoca. Non solo quella trentennale dell’ex Cavaliere al vertice del club rossonero, ma anche l’epopea di una rivoluzione calcistica, operata dall’ex premier e ora affinata ed egemonizzata dalla potenza orientale, beffardamente per il povero Silvio, comunista. E al di là delle battute sulla somiglianza del liftatissimo nuovo presidente onorario del Milan con Mao Tse-Tung (chissà, magari anche lui si fece tirare un po’ il viso per preservare l’immagine pre imbalsamazione), il passaggio di proprietà della squadra guidata da Montella conferma il motto che ogni rivoluzione divora sempre i suoi figli e anche i suoi padri.

Il Milan berlusconiano di rivoluzioni ne ha compiute almeno due. Una tattico tecnica, con Arrigo Sacchi che ribaltò di 180° gradi la prospettiva del glorioso e combattivo calcio all’italiana che poggiava le proprie radici nella nazionale plurivincente dell’alpino Vittorio Pozzo. Il tecnico romagnolo consentì agli italiani collegati in eurovisione di scoprire com’era fatta l’altra metà campo del Bernabeu di Madrid, fino allora teatro di epici catenacci con lanci di stampelle alla Enrico Toti sempre celebrati attorno al portiere della vittima sacrificale di turno in quella che allora si chiamava Coppa di Campioni. Roba da nostalgici cultori del calcio che fu, epigoni degli appassionati delle pellicole di Alain Rasnais. Arrigo, febbrile ascetico profeta, un San Giovanni della sfera di cuoio, si consumò ben presto nella sua rivoluzione imitata e raffinata. Più lento il declino dell’irruzione berlusconiana (di cui Sacchi è diretta conseguenza) che, nel 1986, con l’acquisto del Milan gettò le nuove basi di una politica del calcio basata sull’intuizione della società azienda, del pallone trasfigurato da gioco a prodotto e del tifoso a consumatore.

L’allora solo re delle tv private pose fine all’epoca dei presidenti definiti dal glorioso Guerin Sportivo del conte Rognoni, “ricchi scemi” perché spendevano ma non investivano nelle società calcistiche spesso senza raccoglierne i frutti (con l’eccezione dell’Avvocato Agnelli che faceva corsa a sé ma dovette anch’egli adeguarsi al nuovo corso del Cavaliere). Giuseppe “Giussy” Farina venditore di un Milan sull’orlo della bancatrotta era un classico esemplare della razza di cui sopra, tant’è che si era sciaguratamente svenato per strappare alla Juve Paolo Rossi in comproprietà con il suo Vicenza, per poi retrocedere in serie B con Pablito.

La rivoluzione di Berlusconi, come quella sacchiana, portò cambiamenti e frutti al Milan. Salvo poi essere mutuata sull’onda lunga della globalizzazione. La stessa che ha portato i cinesi a sbarcare sulla battigia rossonera, così come arabi, russi e altri business man partiti da Hong Kong e Shangai a conquistare i club europei, prestigiosi e non. Il progetto è chiaro e molto made in China. Mutuare il pallone europeo per far crescere il movimento e soprattutto il business locale. La Cina ha completato l’evoluzione di un comunismo che forse Cruschev avrebbe voluto avviare con la dovuta lentezza quinquennale dell’Unione Sovietica, quando durante una visita negli Usa si lasciò scappare la considerazione per cui “in fondo questo capitalismo non è così male”. Non gliene lasciarono il tempo che invece a Pechino hanno avuto. Comprensibile perciò la strategia cinese se non fosse che il calcio, purtroppo o per fortuna, ha ancora radici in una storia finora mai smentita per cui i fuoriclasse, quelli veri eh, nascono solo in Europa e in Sud America, dove ci sono le tradizioni e il Dna del gioco più bello del mondo. I profeti dell’imminente esplosione del movimento africano sono stati zittiti dai Mondiali 2010 in Sudafrica e l’Asia finora non ha lasciato tracce memorabili, chissà.

Certo cinese appiccicata su Milan e Inter chiude davvero un’era del calcio italiano che forse rimpiangeremo. Ma questa è una società e un’epoca che più delle precedenti lascia davvero poco spazio ai rimpianti. Come non sarà rimpianta più di tanto (certo meno di quanto non sia la Dc) quella Forza Italia che l’ex Cavaliere, in vena di dismissioni, di appresta a lasciare nelle mani di Stefano Parisi. Anche in questo caso, come per il Milan, si accontenterà di mantenere la presidenza onoraria. Un’altra epoca che finisce. Un’altra rivoluzione, quella della comunicazione politica, affinata e scippata da altri. Non cinesi in questo caso, ma fiorentini (sarà mica la vicinanza con Prato?). Chi infatti, meglio di Matteo Renzi, ha saputo mettere a frutto le tecniche affabulatorie e un po’ volutamente cialtrone che avevano fatto la fortuna elettorale del Cavaliere? Nel calcio come nella politica e nella vita, vale la legge per cui nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Cin Cin.

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