Parliamo di pace ma facciamo la guerra

Viviamo nell’epoca della cosiddetta post modernità, caratterizzata soprattutto in Occidente dalla riduzione del tasso di povertà e di analfabetismo, dalle nuove tecnologie, dalla diffusione del benessere. Un ampio e veloce sviluppo come non è mai accaduto nelle ere precedenti. La ricerca medica ha individuato terapie efficaci per molte patologie che erano mortali. L’individualismo si è diffuso come un principio intoccabile. Diamo per scontate pace e democrazia, diritto alla salute quando non al benessere. La cura del corpo è garantita anche nei suoi eccessi. Eppure proprio in questa epoca e proprio il corpo continua ad essere merce quando non oggetto di crimini efferati. Non lontano da noi assistiamo a conflitti che destano inquietudine e ripulsa per come la vita delle persone viene eliminata in dimensioni vaste.

In Ucraina ogni notte da oltre due anni i missili russi colpiscono abitazioni. Nel marzo 2022 gli occupanti furono responsabili dell’eccidio di Bucha: 1.600 vittime nel distretto, uccise deliberatamente una a una, i corpi anche di donne e bambini con segni di torture e violenze sessuali ritrovati nelle fosse comuni; la stessa sorte è toccata alla città di Mariupol, 25mila civili morti tra febbraio e maggio 2022. Oggi un terzo degli ucraini (14 milioni di persone) non vive più nella propria casa, mentre 19mila minori sono stati trasferiti a forza in Russia.

Nel 20% di Stato occupato e annesso a Mosca, la Croce Rossa Internazionale e la Missione di monitoraggio dell’Onu per i diritti umani hanno certificato carcerazioni arbitrarie, torture e sparizioni, chi non prende la cittadinanza russa perde lavoro, pensione e assistenza sanitaria.

Il 7 ottobre scorso i miliziani di Hamas uccisero 1.200 civili israeliani, cercati uno a uno, altri 230 presi in ostaggio, le donne subirono violenze sessuali di gruppo: gravissimi crimini di guerra. Se i terroristi non fossero stati fermati, quale sarebbe stato il bilancio del massacro?

La risposta militare di Israele ha devastato l’80% della Striscia di Gaza, provocato la morte di 33mila persone (19mila erano bambini, numeri confermati dagli Usa) e ridotto alla fame quasi 2 milioni di palestinesi, privati anche di assistenza medica. L’obiettivo dichiarato dell’offensiva è la distruzione di Hamas e l’eliminazione dei suoi 30mila miliziani nella Striscia: ma non c’è proporzione fra la meta e i mezzi utilizzati per raggiungerla, una devastazione dissennata attraverso crimini di guerra che peserà su un popolo per anni.

In Sudan invece è in corso una guerra civile che in un anno ha provocato almeno 20mila vittime civili, milioni di sfollati e profughi: almeno perché molte zone investite dai combattimenti non sono raggiungibili. C’è uno iato terribile fra il progresso del quale ci vantiamo e la barbarie anche dei conflitti contemporanei, la violenza con la quale vengono condotti senza alcuna tutela dei civili, anzi spesso cercandoli.

Un baratro fra i truci fatti e la ricerca di soluzioni preventive. In tempi recenti si è detto «mai più» dopo guerre che hanno decimato popoli ma all’emozione non è seguita l’azione. È necessario e sacrosanto l’impegno per il disarmo, con un obiettivo globale e non rivolto solo ad alcuni Stati. Ma andrebbe riaffermato con forza pure l’argine e la tutela del diritto internazionale e del diritto umanitario internazionale, che ogni Paese belligerante chiama in causa a seconda delle convenienze.

Bisognerebbe andare alla radice della violenza bellica: le preparano il terreno discorsi di odio e settari, ideologie di supremazie nazionali o etniche, il non riconoscimento dell’altro, dei suoi diritti e della sua dignità. Ma talvolta anche le parole dei religiosi che rivestono i conflitti di sacralità. La pace non è solo l’assenza di guerra ma delle condizioni che possono generarla. Andrebbe dato sostegno, in ogni Stato, a chi lavora per contrastare queste condizioni, per creare relazioni, antidoto al disprezzo e alla paura indotta che sono le prime armi utilizzate in ogni conflitto.

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