L’ATTUALITà DI BYRON
UN MITO
da 200 anni

Il Novecento, comunque lo si voglia circoscrivere e interpretare, ha lasciato in eredità alcune domande alle quali risulta estremamente complicato fornire una risposta plausibile. «Chi sono io?» è una di queste domande. Anzi, si tratta forse della domanda per eccellenza, perché contiene numerose altre questioni non meno intricate.

Da Unamuno a Beckett, passando per Pirandello e l’esistenzialismo, solo per citare alcuni degli snodi decisivi (senza ovviamente dimenticare Freud e la psicanalisi), il dubbio relativo all’identità è tipicamente novecentesco e nasce dalla percezione dell’io quale entità non meglio definibile, perché irretita in un labirinto di mascheramenti e disvelamenti che rende impossibile dirimere il volto e ciò che lo nasconde, il vero e il falso, la realtà e la sua rappresentazione.

“Chi sono io?”

La domanda è novecentesca negli esiti, ma le sue premesse e scaturigini vanno cercate tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Il diritto di primogenitura, se così lo si può definire, spetta infatti a George Gordon Byron, perché è nel suo caso che la domanda si presenta per la prima volta con la massima e indifferibile urgenza. A proposito di domande: ma chi era veramente Byron? Il canone letterario lo annovera tra le figure di spicco del romanticismo europeo e tra i massimi poeti britannici di ogni tempo, mentre nell’immaginario collettivo si è via via cristallizzata l’immagine dello spirito ribelle e del libertino disincantato e malinconico, con un gusto per l’eccesso che gli è valso la fama molto “pop” di rockstar ante-litteram. Tutto vero, ma anche tutto falso o comunque riduttivo, a dimostrazione del fatto che la domanda «Chi sono io?» nasce proprio con Byron.

Una delle sue tante amanti, Lady Caroline Lamb, lo aveva definito «folle, cattivo e pericoloso», il “gran bugiardo” Stendhal (non senza una punta di malcelata invidia) sosteneva che le sue opere avevano anche lo scopo di fornire consolazione alle donne sole oppure malmaritate. Entrambi avevano ragione (perché c’è della verità anche nella voluta menzogna di Stendhal), così come aveva sicuramente ragione il giovane Gustave Flaubert, lettore entusiasta de “Il prigioniero di Chillon”, che al ritorno da un viaggio in Italia si era recato in visita all’omonimo castello sul Lago di Ginevra per rendere omaggio alla memoria del grande antenato («Mi sono messo la mano sul cuore, e l’ho sentito battere più forte del solito», scriverà alcuni giorni dopo nelle sue annotazioni). Era la primavera del 1845, Byron era morto da circa un ventennio.

I giudizi contrastanti fanno capire fino a che punto la vicenda umana e poetica di Byron costituisca il primo esempio di un io sfuggente e prismatico, che tende continuamente a sfrangiarsi e frantumarsi per poi ricomporsi e rimodellarsi in nuove forme, come in un differimento prospettico oppure in un gioco di specchi che due secoli dopo ci risulta ancora disorientante, ma che il Novecento ha contribuito a renderci familiare. Una familiarità, beninteso, piuttosto sinistra e perturbante, ma pur sempre familiarità.

Operando una variazione su una celebre frase del già ricordato Flaubert a proposito di “Madame Bovary”, non è insomma esagerato affermare: «Byron c’est nous». A duecento anni esatti dalla morte, infatti, e al di là di ogni banalizzazione del mito del “ribelle”, Byron ci parla con un’immediatezza che si è conservata intatta, sia nelle opere che nei diari. I suoi contemporanei lo avevano definito «un vaso d’alabastro illuminato dall’interno»: la definizione è giustissima ed è stata opportunamente scelta come titolo della più recente edizione dei diari.

«Chi sono io?», ma anche: «Dove mi trovo?», «Qual è la mia più intima essenza?». Sono numerose le domande che Byron non cessa idealmente di indirizzarci. Si dice spesso, non senza valide ragioni, che “l’autore è l’opera” e che la sua verità umana e poetica va cercata appunto nell’opera, non nella vita e nella casualità delle sue infinite occorrenze. Byron costituisce un’eccezione a questa regola, perché nel suo caso è forse più corretto dire che l’autore e la sua vita, più che “l’opera”, sono interamente “nell’opera”, ma lo sono in una maniera molto particolare: George Gordon Byron è infatti Childe Harold, il Giaurro, il Corsaro, Beppo, il prigioniero Bonivard, Mazeppa, Don Giovanni e soprattutto Manfred col suo desiderio di espiazione e la sua sete di assoluto, tutti personaggi che sia singolarmente che nel loro insieme esprimono la superficie della sua verità umana e poetica. Eppure, proprio esprimendo la superficie della verità, ne tengono nascosto il nucleo più segreto e autentico.

È questo, a ben vedere, il senso di un’importantissima ma spesso fraintesa battuta del “Manfred”, nella seconda scena del secondo atto, quando il protagonista, nel corso del meraviglioso dialogo nei pressi della cascata, si rivolge alla Strega delle Alpi ed esclama: «Abito la mia disperazione - E vivo - e vivo per sempre». Le tre affermazioni, unite e disgiunte dall’invenzione stilistica dei trattini, sono la testimonianza di una lacerante e insolubile contraddizione, che è la contraddizione stessa dell’esistenza nel tempo, nel divenire, nell’opacità delle cose che passano e si perdono. Se c’è una “frase originaria” di Byron, la si può ravvisare con ogni evidenza nell’antitesi espressa in questa battuta. Com’è possibile abitare la disperazione e vivere per sempre? In altri termini: «Chi sono io? Qual è la mia più autentica verità?».

I diari, pubblicati postumi nel 1830, sono una continuazione dell’opera poetica con altri mezzi e un’immediatezza, se mai possibile, ancora maggiore. Le parole e le frasi - spesso separate e insieme congiunte dai trattini, come nelle opere d’invenzione - sembrano concretamente riprodurre il ritmo del respiro e le pulsazioni cardiache. È un pensiero, quello di Byron, che continua a pensarsi e inventa/reinventa una vita che da parte sua continua a viversi in maniera quasi irriflessa e impersonale, sedimentandosi da ultimo in un puro presente restituito con una luminosità per molti versi pittorica.

“Genio infelice”

La scrittura riproduce il pensiero nel suo pensarsi, la vita nel suo viversi, le frasi si susseguono come battiti cardiaci, i trattini evocano il ritmo sistolico/diastolico. Nessuno lo aveva fatto prima, molti lo faranno dopo, pochi (viene da pensare a Stendhal e Céline) con la stessa bruciante intensità: «Pensi forse che l’esistenza dipenda dal tempo?», dice Manfred al cacciatore di camosci, e poi aggiunge: «Certo, ma le azioni sono le nostre epoche: le mie hanno reso imperituri i miei giorni e le mie notti, infiniti, tutti uguali, come sabbia sulla spiaggia, atomi innumerevoli e un solo deserto, spoglio e freddo, su cui si infrangono le onde furiose, ma nulla si posa, se non carcasse e relitti, rocce e le erbacce salmastre dell’amarezza».

«Chi sono io?»: due secoli dopo, la grande questione posta da Byron rimane sempre viva e sempre più insolubile. Lo stesso Byron, del resto, ha incarnato e consegnato a futura memoria uno strano paradosso (che in ultima analisi non è nemmeno troppo strano): della sua vita non si sa nulla perché si sa tutto, ma in maniera filtrata e rimodellata; oppure si sa tutto ma non si conosce nulla, perché non si ha idea di dove passi il confine tra realtà e invenzione e cosa siano, in fondo, la “realtà” e l’“invenzione”. Rimangono quindi, come unica certezza, i pretti dati biografici: nato il 22 gennaio 1788 a Londra e morto il 19 aprile 1824 a Missolungi, dopo i primi controversi successi letterari abbandonò l’Inghilterra e «le sue nuvole», soggiornò per lungo tempo in Italia, in seguito aderì alla causa dell’indipendenza greca, e proprio in Grecia morì per un attacco di febbre reumatica. Quando la salma tornò in Inghilterra, pare che un bottegaio, al passaggio del corteo funebre, abbia esclamato: «Un grande poeta, ma infelice… È il destino del genio. Anch’io sono spesso infelice…». Il “grande poeta” era già un mito, o piuttosto quella che oggi definiremmo una larva mediatica, una proiezione immaginativa. Era ormai cominciata quella che Thomas Mann definirà poi “la grande ebetudine”: l’epoca flaubertiana del nulla comune, della “bêtise” e del “cretinismo”.

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