L’arsenale dei clan
«Per certi lavori
meglio il revolver»

«Tra gli affiliati un’arma è un patrimonio comune»

A Novedrate un laboratorio di pistole artigianali

Da padre a figlio, perché tramandare tradizioni e regole è importante. Istruzioni semplici, frutto dell’esperienza, come quella di «non andare in giro a fare lo s... con dietro quella cosa». Che a giocare con le pistole ci si fa male o, peggio, ci si fa arrestare.

La conversazione catturata dai carabinieri del Ros sulla Clio di Giuseppe Puglisi, in cella con l’accusa di essere il capo della locale di ’ndrangheta di Cermenate, risale ad appena un mese fa. Con lui, sull’auto, anche il figlio Giovanni, 20 anni appena.

«Giovanni, quella cosa lì te la do. Ma ricordati di tenerla solo te e non deve sapere niente nessuno. E quando dovessi chiamare e ti dico “prendimi il pacchetto di sigarette che ho lasciato a casa”, ricordati che serve quella lì».

Che «quella lì» sia una pistola carabinieri, pm della Dda e pure il giudice delle indagini preliminari che ha firmato 40 custodie cautelari non hanno alcun dubbio. Anche perché sono proprio padre e figlio di Cermenate a parlarne apertamente: «Quella lì è mia personale... la tua ce l’ha un’altra, un’altra a tamburo. Poi la lasci lì, in un posto asciutto naturalmente, dove non c’è umidità». Ingaggia pure una sorta di caccia al tesoro virtuale, Giuseppe Puglisi: «Non ti immagini neanche dov’è... in un posto che se lo possono sognare». «Te lo dico già dove: in fondo ai piedi del mio letto». «No». «Sotto i quadri». «No». «Dentro le scarpe...».

Sembra la pagina di un romanzo d’altri tempi, l’intercettazione tra Puglisi junior e l’influente genitore. In cui Giuseppe dispensa pillole di esperienza: «per fare quei lavori lì, bisogna sempre avere quella a tamburo», perché un revolver non tradisce. Il giovane figlio, affiliato con la dote di “camorrista di sgarro”, cioè al gradino più basso della carriera nella ’ndrangheta, non ce la fa a non buttar lì cosa sarebbe stato bello trovare sotto l’albero del prossimo Natale: «Io voglio la mia, pà». Risposta: «Magari per Natale ti diamo una... ti diamo quella dopo».

É decisamente corposo il capitolo che gli inquirenti dedicano all’arsenale di cui gli ultimi presunti affiliati ai clan calabresi possono disporre. Non c’è “compare” che non abbia un’arma o, comunque, che possa procurarsela «in tempi stretti». Puglisi, chiacchierando con Michelangelo Chindamo, ex e attuale capo - sostengono i magistrati - della locale di Fino Mornasco, tornato in carcere dopo 15 anni di reclusione per associazione mafiosa, spiega di averne almeno un paio di pistole, una qui, l’altra in Calabria: «Quando vado giù certe volte mi girano e me la metto addosso e vado in giro».

Da parte sua Chindamo viene intercettato mentre fa anche prove di tiro, come nell’agosto dello scorso anno quando nel cuore della notte si ferma ai lati della provinciale per Bulgorello e spara un paio di colpi. Senza contare quando, mentre pianificava l’attentato contro l’avvocato comasco finito suo malgrado nel mirino dei clan, parla espressamente della possibilità di procurarsi un fucile «a canne mozze».

Ma i Ros ritengono anche di aver scoperto un possibile laboratorio artigianale per la realizzazione di penne-pistola monocolpo realizzate in casa. Protagonisti i fratelli Giorgio e Francesco Licata di Novedrate che, secondo gli inquirenti, sarebbero stati in affare con Ivano Bartolomeo Valente, 25enne di Bregnano, per una produzione in serie da vendere agli altri “compari”.

L’inchiesta sulla ’ndrangheta in Brianza su La Provincia del 21 novembre.

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Eco di Bergamo alla ’ndrangheta