«Imprese e Giovani distanti. Serve un punto di incontro»

Stefano Micelli, docente a Ca’ Foscari, guarda alle difficoltà di molte aziende artigiane a trovare personale. «Gli imprenditori dovrebbero andare nelle scuole e contaminare il loro saper fare con il nuovo che è dei ragazzi»

«Credo sia importante che gli imprenditori parlino nelle scuole, per portare ai ragazzi esempi e ruoli che potrebbero seguire. Detto ciò, la scuola non è fatta solo per trovare lavoro bensì per dare ai giovani anche uno spettro di esperienze di un certo tipo», afferma Stefano Micelli, docente di Economia e gestione delle imprese all’Università Ca’ Foscari di Venezia, fondatore dello spin off Upskill 4.0 e responsabile scientifico di “Its 4.0”, progetto del Miur sviluppato con il dipartimento di Management di Ca’ Foscari.

Professore, qual è la prima ragione che rende così difficile alle imprese artigiane trovare ragazzi con le giuste competenze?

I problemi in tal senso sono diversi, e il primo, difficile da risolvere nel breve periodo, sta senz’altro nel calo demografico: i giovani sono pochi. Dobbiamo abituarci a fare i conti con un mercato del lavoro in cui i giovani che entrano sono decisamente meno di quelli a cui eravamo abituati. Nel mio anno di nascita, 1966, era nato quasi un milione di bambini, nei dati Istat nel 2022 ne sono nati circa 393mila: un calo agghiacciante di cui si fatica a rendersi conto. Oggi ci sono poco meno di 300mila iscritti all’università: andiamo quindi a pescare in un mondo che si è asciugato e che è strutturalmente più contenuto nei numeri. Non possiamo dirci sorpresi per la mancanza di candidature.

Cos’altro c’è oltre al calo demografico?

C’è il fatto che i giovani oggi hanno un diverso tipo di sensibilità rispetto al lavoro e sono attratti da carriere diverse da quelle del passato. Vivono una parte importante della loro vita sulle piattaforme social, con il loro telefono in mano. Hanno punti di riferimento diversi e non vedono il valore, l’importanza, il fascino di carriere legate al tema dell’artigianalità. Le loro priorità sono legate all’agenda del mondo in cui stiamo vivendo.

Quanto pesa la poca attrattività economica del mercato del lavoro italiano?

Questo è il terzo punto che rende difficile per le imprese trovare candidati: rispetto ad alcuni anni fa, inizia ad essere percepito soprattutto dai ventenni che hanno all’attivo un certo tipo di istruzione, che sia professionale o universitaria, uno scarto fra il mercato del lavoro italiano e quello internazionale. Che si tratti di fare il data scientist o il saldatore, il lavoro viene remunerato molto diversamente in Italia rispetto all’estero. È un tema che non può essere posto in alcun modo in secondo piano: a parità di lavoro le nostre sono remunerazioni basse. Demografia, dato culturale e tema economico sono tre aspetti su cui siamo chiamati a profonde riflessioni.

C’è anche una responsabilità più o meno diretta da parte delle imprese per non essere riuscite a trasmettere nel tempo e con costanza il valore del lavoro artigiano?

Da economista, ma anche da genitore, le dico che i giovani hanno il diritto e il dovere di presidiare la frontiera, che sia tecnologica, della sostenibilità ambientale o culturale. Oggi l’artigianato italiano rimane un tesoro se viene completato dalle nuove tecnologie, da nuove forme di comunicazione, dall’intelligenza artificiale. Se noi proponessimo ai giovani, nel rispetto dei fondamentali dell’artigianalità, di ibridare la tradizione con il nuovo sono certo che avremmo molte più candidature di ragazzi interessati a entrare in una bottega artigiana.

Un esempio?

Se un imprenditore artigiano di lungo corso dicesse a un giovane vieni a lavorare da noi perché tu sei un portatore sano di una parte che io non conosco, ad esempio nuove forme di comunicazione attraverso i social, il commercio elettronico, il blog per raccontare quel che facciamo o altro, avremmo molte più candidature. Abbiamo spesso (e dico giustamente) lodato le qualità del lavoro artigiano senza però pensare che a un ventenne tali qualità possono interessare ma se arricchite con una proposta legata all’esplorazione di una frontiera.

Ciò risolverebbe i tre problemi che ha citato, legati a calo demografico, cambiamento culturale e bassi salari?

Direi di sì: è vero che ci sono meno giovani, ma molto di più potrebbero interessarsi a una proposta che unirebbe quella domanda culturale di comunità, di comunicazione, di protagonismo. E può darsi che aumentando così la produttività delle imprese artigiane si possa ambire a remunerazioni interessanti.

C’è dunque qualcosa da abbattere per il giusto incrocio fra vecchio e nuovo?

Sì, non funziona riproporre la qualità del mestiere antico.

Antichi mestieri che però esistono e costituiscono una precisa categoria nell’associazionismo artigiano: che valore hanno?

Come economista (e ovviamente al di là di valutazioni di diverso carattere) dico che gli antichi mestieri hanno oggi un valore esclusivamente legato al lusso. Gli antichi mestieri giustificano la loro presenza perché esiste un mondo di grandi marche del lusso che ha bisogno di valorizzare quello che si definisce heritage, dato da un insieme di tradizioni, cultura, materiali. È un valore di nicchia che si giustifica dentro reti più grandi. Moltissimi dei brand più noti sono estremamente attenti alla salvaguardia e valorizzazione di questi saperi che, ad esempio, trovano spazio anche in un certo tipo di turismo: ad esempio, si possono produrre oggetti di grandi sofisticazione se si sta all’interno di destinazioni turistiche che portano in casa una domanda internazionale interessante. Accade nei grandi poli metropolitani, oggi ad esempio Parigi è piena di persone e aziende che lavorano in questa dimensione: il vantaggio offerto all’artigianato degli antichi mestieri in questi contesti sta nel fatto che può beneficiare di una domanda internazionale.

Ci sono meno giovani, ma è anche vero che più le aziende si fanno tecnologiche e meno persone servono. Resterà comunque troppo ampio il divario quantitativo fra domanda e offerta?

Il grande ostacolo sta nel fatto che i giovani italiani hanno conosciuto una domanda internazionale importante. L’Italia è un Paese i cui prodotti piacciono in tutto il mondo, ma è anche un Paese in cui, come ci dicono i dati del mercato del lavoro, continua a chiamare giovani al lavoro senza riuscire a rilanciare la produttività. Da anni continuiamo comunque ad avere tante persone che entrano nel mercato senza che però questo si traduca in aumento dei redditi e dei consumi. Va così un po’ perché siamo più vecchi, e i vecchi consumano meno dei giovani, ma anche perché non essendoci un aumento della produttività paghiamo meno le persone e trasferiamo loro minor entusiasmo. Lavorando coi ventenni all’università vedo che quello della remunerazione sta diventando un problema endemico: i nostri giovani sanno che andando all’estero i salari sono più alti in ogni professione.

Come vede il ruolo delle associazioni di categoria nel trasmettere attraverso il rapporto con le scuole la domanda di competenze dell’artigianato?

Le associazioni di categoria devono svolgere un ruolo di guida, perché le persone che operano nel comparto artigiano fanno molta fatica a leggere il contesto economico, culturale e sociale in cui si trovano. Siamo in un mondo in grandissima trasformazione, con fattori di cambiamento che ci costringono a rivedere il modo in cui lavoriamo e viviamo. Senza una mediazione culturale si rischia di avere una società risentita, rabbiosa, che si sente imbrogliata e che dice sciocchezze come “è colpa dell’Europa”. Le associazioni di categoria devono farsi carico di socializzare un orizzonte di senso nuovo. Non è mai tardi per iniziare a correre.

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